La scuola per i tessili
è eccellenza non serie b

Schiere di giovanotti lariani con il cappello da cuoco e telai deserti. Non è poi tanto fantascientifico lo scenario prospettato da chi in questi giorni è stato chiamato a valutare l’incredibile flop del nuovo corso triennale per operai tessili specializzati che, già in partenza, portava in dote un posto di lavoro.

Il clamoroso disinteresse che i ragazzi e le loro famiglie hanno dimostrato per un’opportunità formativa e professionale di tale rilevanza è tanto più incomprensibile in un periodo storico in cui le prospettive occupazionali dei giovani sono sconfortanti. Si è detto, appunto, che ci vorrebbe un talent legato al settore tessile, un “Master Chef” della seta, perché è noto che il grande successo dei programmi che in tv mettono l’una contro l’altra le giovani leve dei fornelli ha prodotto come effetto secondario un incremento delle iscrizioni alle scuole alberghiere.

Non è difficile capire il perché: lo chef in versione catodica è un artista della padella, una specie di stilista della fettina, lavora in splendida solitudine - poco importa se invece dietro il massacrante lavoro dei cuochi ci siano intere e oscure brigate di aiutanti in grembiule - è pieno di personalità e se non belloccio è comunque un vincente. Poi, va da sé, viaggia, ed è pagato molto bene.

Al contrario, la prospettiva di una pur sicura collocazione dietro una macchina tessile evoca ancora un destino di serie B, spersonalizzante, non da protagonisti. Da ingranaggi di un sistema produttivo. Non solo: in Italia la scelta di mandare un figlio a una scuola professionale è ancora vista come una scelta di cui vergognarsi un po’. Se appena appena raggiungono il 6 in italiano, i nostri ragazzi difficilmente sfuggono al liceo, salvo poi arrancare fino alla maturità e andare a ingrossare le file dei disoccupati. Infatti il Setificio, che alla formazione tecnica abbina un curriculum scolastico completo, viaggia comunque ad aule piene, pur non riuscendo a soddisfare la richiesta di nuova manodopera che arriva dal mondo delle imprese.

Eppure il problema non è solo culturale: alla capacità di trovare nuove maestranze è legata la stessa sopravvivenza del tessile. Non per una questione di quantità di forza lavoro: ma perché la capacità di tramandare la sapienza che è alla base della qualità del prodotto comasco è da tutti indicata come la via maestra per reggere la concorrenza straniera, e cinese in particolare. Il valore aggiunto che ancora fa preferire alla clientela un tessuto made in Como a uno made in China non sta nelle materie prime – che da un pezzo non sono più nostrane – ma in quello che una volta si chiamava “know how”. Che non è solo legato al mondo dei creativi – stilisti e disegnatori – ma è il patrimonio che generazioni e generazioni di una vera aristocrazia operaia legata al mondo della seta si sono tramandate. Davanti al telaio o sui banchi di scuola, poco cambia.

L’importante è che questa tradizione, questo orgoglio di mandare per il mondo l’eccellenza dei prodotti tessili, non vada perduto e diventi capacità di investire nella formazione per il futuro del settore.

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