L’assenza di una vera
cultura dello sport

Ci sono due “materie” - chiamiamole così - di cui in Italia non frega un accidenti a nessuno. Una è la musica, l’altro è lo sport.

Quando parla di “educazione musicale”, Riccardo Muti ama citare l’odiato “flautino”, nel quale sia noi che i nostri figli abbiamo imparato a sputacchiare fin dalle scuole elementari. Quel dannato piffero di plastica, inutile e anzi dannoso (lo dice Muti, mica chi scrive), basta da anni a considerare assolto il debito che il Paese ha accumulato con la sua storia musicale, da Monteverdi a Luciano Berio. Nelle palestre delle nostre scuole, quando non ci piova dentro, il flautino è la “palla cambio”, un giochetto che tutti gli insegnanti di educazione fisica rifilano ai ragazzi delle medie, facendo i conti con le due ore scarne di ginnastica settimanale e con strutture inadeguatissime, sulle quali peraltro si è scritto molto senza che a qualcosa sia mai valso a che la situazione cambiasse. Non è, come dimostrano le condizioni in cui versano gli impianti sportivi di Como, un problema che riguarda soltanto le zone meno fortunate del Paese. E neppure si può pensare di prendersela sempre con gli enti locali, spremuti a dovere e senza le risorse per poter garantire i servizi minimi, figurarsi tre pedate a un pallone. Il problema concerne la totale mancanza di cultura dello sport, in una nazione che pure, sorprendentemente, qualche risultato, nella sua storia, lo ha raggiunto. In città è diventato difficile perfino dedicarsi al calcio. I campi sono pochi e costosi, le società tantissime. Se tra i pallonari a salvare il movimento è una passione quasi coriacea e incrollabile (a volte anche un po’ incomprensibile), molte altre discipline sono diventate, nel tempo, pressoché impraticabili. La storia più recente del campo Coni dice molto: prima che il Rugby Como trovasse il modo di allenarsi al centro sportivo di via Longoni, ci fu un periodo in cui chi correva lungo l’anello doveva scansarsi per evitare placcaggi, mentre chi inseguiva l’ovale doveva badare, oltre che all’avversario, anche ai martelli e ai giavellotti volanti di chi si allenava sognando, chissà, una pista d’atletica olimpica. Non pervenute le scuole, i cui programmi non hanno mai tenuto minimamente conto del sacrosanto diritto allo sport. Stranezze di un Paese comunque diverso anche dagli “uguali”, da quelle nazioni che gli sono più vicine per geografia e cultura. È stupefacente il confronto, anche solo “visivo” con le scuole di Francia, Germania e Inghilterra, circondate da terreni di gioco a perdita d’occhio, gli uni in fila agli altri, distese verdi sulle quali inseguire sogni e palloni e sui quali, soprattutto, imparare la vita, il confronto, il senso dell’amicizia e quello dell’inimicizia, della fatica, del risultato e di tutto ciò che la pratica di una attività sportiva può insegnare. Oggi, l’Italia sembra la Ddr, quella anni Settanta delle nuotatrici che somigliavano a Hulk. Ci accomuna ,a quella Germania ,non il fisico delle ragazze del nuoto (le nostre sono per fortuna di gran lunga più graziose) ma l’inevitabile ricorso all’uniforme, unica strada a disposizione di quanti vogliano praticare a livello professionistico un qualunque sport che non sia il calcio. Un piccolo stipendio, pochi euro al mese, e la garanzia di potersi allenare tra le mura di una caserma. Come a Dresda nel 1976.

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