Le paratie e il virus
diffuso anche qui

A chi abbiamo affidato le sorti di uno dei volti più affascinanti ed emozionanti e di pregio della nostra città? A una società che «versava somme di denaro al fine di ottenere assegnazioni di lavori in via preferenziale». È tutto qui il nocciolo della vicenda Sacaim e del suo ex capo, Pierluigi Alessandri, che davanti ai magistrati di Venezia ha candidamente ammesso di aver pagato un presidente di Regione e un assessore di quella stessa Regione, il Veneto.

Nessuno si affanni a cercare velate o celate accuse a politici nostrani: qui l’oggetto del contendere è un altro. Ovvero interrogarci sul grado di onestà e di trasparenza che aveva la tanto elogiata società vincitrice dell’appalto paratie nei mesi in cui vinceva quell’appalto. Un interrogativo che non dovrebbe tormentare soltanto noi o chi all’epoca si era fermamente opposto al progetto che sta sfregiando la nostra città, ma anche e soprattutto chi a quella società ha dato in mano le chiavi del cantiere. Se come genitori dovessimo leggere che il baby sitter a cui avevamo affidato nostro figlio ha confessato di essere un pedofilo, come minimo correremmo dal magistrato a chiedere: per favore, indaghi. Scavi. Accerti. Chieda. Faccia luce. La stessa preoccupazione e la medesima ansia di trasparenza dovrebbe valere per le paratie.

Sarebbe bello vedere la coda di amministratori ed ex amministratori prendere l’ascensore del palazzo di giustizia per chiedere alla Procura di aprire un fascicolo per verificare se quel vizietto così candidamente confessato sia stato esercitato anche fuori dal Veneto. E se sì in quale contesto e con quali conseguenze. I comaschi, sicuramente, meritano di conoscere la verità.

Al netto delle considerazioni legali e giudiziarie e dell’esito dell’inchiesta che la Procura di Venezia sta ultimando a carico dell’imprenditore veneto, le sue parole sono sconfortanti. In senso generale, certo, ma non solo. Sono sconfortanti in particolare per noi comaschi. Che dal 2007 conviviamo con lo scempio di un cantiere infinito che dà della città un’immagine desolante e terribile. Un cantiere oggettivamente inutile sul piano del raggiungimento dei risultati per cui ufficialmente è stato pensato e finanziato (lo stop alle esondazioni del lago) e incredibilmente costoso per le casse del Comune e degli altri enti pubblici, che poi sono le tasche di tutti noi cittadini.

È desolante che quel lavoro sia finiti in mano a un imprenditore che solo dopo essere stato scoperto ha fissato il magistrato e detto: «Mi rendo conto di aver sbagliato, ma purtroppo il sistema era questo e mi sembrava l’unica via possibile per far lavorare e sopravvivere la mia azienda».

Piercamillo Davigo, consigliere della Cassazione ed ex pm di Mani Pulite, ha definito la corruzione «un reato seriale e diffusivo». Un virus, in buona sostanza. Peggio: un cancro. Che si è insinuato nel tessuto della nostra città. Perché una parte di quei soldi comaschi che sono stati versati alla Sacaim sono serviti altrove per oliare. Per aggiustare. Per convincere. Per corrompere.

Da Como abbiamo guardato inorriditi a chi rideva del terremoto in Abruzzo pensando agli affari sporchi che avrebbe potuto fare, abbiamo alimentato un odio e una diffidenza generale nei confronti della politica sporca, abbiamo vissuto con sconcerto l’epoca di Mani Pulite, forse abbiamo anche esultato quando Bettino Craxi veniva accolto dai fischi e dallo sventolio delle banconote. Sembrava tutto lontano da noi. Forse ci siamo anche detti: a noi non potrà capitare. Sbagliavamo.

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