Le tre prove che Renzi
è chiamato a superare

Era una facile profezia prevedere che Renzi, quando fosse passato dalle parole ai fatti e ancor più dalle riforme istituzionali (che non fanno male a nessuno) a quelle economiche (che invece mordono sulla carne dei malcapitati), avrebbe imparato quanto sa di sale toccare le tasche altrui. È il vecchio, maledetto, irrisolto dilemma della conciliazione del sostegno popolare con un’azione di governo talora necessariamente impopolare.

Ottenere un certo grado di consenso è condizione imprescindibile di qualsiasi potere politico, soprattutto da quando esso ha visto fondare la sua legittimità irrevocabilmente su base popolare. Anche i dittatori, anche - anzi, soprattutto - i moderni autocrati fondatori di uno stato totalitario, appunto perché impongono un’autorità non scelta secondo una procedura democratica, ricorrono massicciamente ad ogni mezzo, repressivo, censorio, propagandistico, pur di imporsi.

I governanti eletti devono fare i conti invece con il problema di un consenso meno manipolabile, visto che operano in un contesto di, più o meno, ma pur sempre libera espressione delle idee e di pluralismo informativo. Alla scadenza del mandato li aspetta inesorabilmente il giudizio degli elettori a cui solo spetta di confermarli al loro posto con un consenso maggioritario. Decisiva in certe situazioni (come guerre o gravi crisi economico-sociali) tale sfida risulta assai improba. Non a caso tutti i premier stanno attenti a richiedere ai loro concittadini sacrifici e rinunce all’inizio legislatura, nella speranza di riuscire a far loro apprezzare i frutti in tempo utile. Condizione necessaria, tuttavia, è che riescano a far approvare da parlamenti i provvedimenti adottati e a veder maturare i loro benefici effetti nel giro di tre/quattro anni. Ne sa qualcosa Gerhard Schröder, il cancelliere tedesco che tra il 2003 e il 2004 adottò misure risultate alla distanza particolarmente benefiche per l’economia del suo paese, ma nell’immediato assai contrastate anche all’interno del suo partito. Infatti rinunciò addirittura a ricandidarsi, consapevole di essersi alienato le simpatie dei suoi elettori.

Renzi fa in questi giorni lo spavaldo. Ai poliziotti che minacciano di osare l’inosabile (almeno finora), ossia lo sciopero, replica a muso duro che non accetta ricatti. È già coraggioso per lui leader dello storico partito della sinistra italiana etichettare sciopero come ricatto. Ma è ancor più coraggioso lanciarsi in una sfida che gli può aprire sotto i piedi una pericolosa falla. Pubblico impiego, sindacati, opposizioni e, last but non least, le minoranze interne: si sono già messi tutti sul piede di guerra. La minaccia è che un eventuale passaggio parlamentare si trasformi in un percorso minato e, di riflesso, che il suo cospicuo appoggio popolare cominci ad essere eroso. I suoi spazi di movimento sono, peraltro, ristretti. Un’eventuale correzione dalla linea di condotta adottata finirebbe col ledere la sua fama di intrepido politico in lotta solitaria contro la conservazione di privilegi e rendite. Insomma, anche Renzi è entrato nel maledetto Triangolo delle Bermude. Deve superare (senza perderne una) tre prove: adottare misure impopolari, non far franare la sua maggioranza parlamentare, arrivare alla verifica elettorale forte di risultati della sua azione di governo confortanti.

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