L’eterno supplente
maschera italiana

Il supplente. Album di famiglia. Autobiografia della nazione. Metafora dell’italiano medio che italianamente italianeggia nell’italietta degli italioti. Perno e caposaldo dell’impiego a tempo determinato eternamente rinnovabile a tempo determinato. Esperienza unica, formativa, pedagogica, letteraria, devastante e grottesca come poche altre - il servizio militare, la prima vacanza senza i genitori, lo sbocciare dell’amore al tempo delle mele – che ognuno di noi dovrebbe sperimentare almeno una volta nella vita.

L’annuncio del ministro Giannini della soppressione di questa figura mitologica - anche se prontamente rientrato dopo appena tre giorni, altrimenti che governo Renzi sarebbe? – è una di quelle svolte che vanno a toccare l’immaginario collettivo, la cultura profonda di una società immobile, familista e melmosa come la nostra, ancora abbarbicata a riti, consuetudini e birignao tipici di un paese degli anni Cinquanta, che vede nell’impiego pubblico a qualsiasi condizione il mantra a cui abbeverarsi. Chi lo ha sperimentato per qualche tempo già durante gli studi universitari ne ha piena coscienza.

È bastato un foglio per capire tutto. Quando alla fine degli anni Ottanta un ragazzotto di poco più di vent’anni, che per tentare di mettere insieme il pranzo con la cena aveva inondato tutte le segreterie di tutte le scuole di ogni ordine e grado offrendosi per le supplenze in materie umanistiche, si è ritrovato tra le mani – e la convocazione scritta la conserva ancora come documento storico, come Magna Carta di un regno ancestrale – un incarico di giorni tre (tutto vero, tre giorni!) per sostituire in un certo istituto professionale un certo professore influenzato. E il ragazzotto, nella disarmante ingenuità di uno venuto giù con la piena dell’Adda, si era domandato come fosse possibile che si dovesse chiamare un docente esterno per un’assenza di tre giorni e se non fosse più logico utilizzare risorse interne per gestire l’emergenza.

Ma si sbagliava. Perché l’anno successivo gli sarebbe arrivata pure una convocazione per giorni uno (tutto vero, un giorno!) e soprattutto perché appena riscosso il suo primo stipendietto, neanche tanto misero, capì di essere finito in trappola pure lui. Quel sistema folle e vampiresco per le casse statali ti avvolgeva come la tela di un ragno: ti lasciava fuori ma intanto ti portava dentro, non ti assumeva però ti regalava qualche briciola di lavoro e introiti, contribuiva a mantenere lo status quo e a fare da ammortizzatore sociale, perché di laureandi in lettere a spasso era già pieno anche vent’anni fa, perché gli organici della scuola erano sempre insufficienti (chissà come mai…), perché la pace e la cooptazione sociale vincevano sempre – con la benedizione di governi balneari e sindacati bulgari – sulla selezione, la competenza e la qualità.

E non era finita. Perché una volta entrato in quell’ingranaggio, ti si rivelava un mondo. Antropologico. Narrativo. Lombrosiano, a tratti. Il professore di lungo corso - uscito da un’università più seria di quella devastata dalla demagogia da straccioni del Sessantotto con i suoi leaderini pulciosi e i suoi diciotto politici perché è tutta colpa del padronato e delle multinazionali – forse un po’ rigido e sorpassato, ma che guardava con sottile disprezzo il piano inclinato su cui si era messa la categoria. Quello spurgato fuori dalla massificazione degli anni Settanta e che con i suoi maglionazzi sformati, l’uzzolo del teatro esistenziale con la dolcevita e le schitarrate in classe che sono meglio di Catullo e Leopardi, a noi figli degli anni Ottanta faceva venire una gran voglia di mettergli le mani in faccia. Quello che, insomma, questi carichi di lavoro sono una cosa intollerabile – intollerabile!! – e lo Stato cosa fa per noi e non esiste più una morale condivisa e intanto accumulava valanghe di ripetizioni a casa, naturalmente in nero. I supplenti annuali iscritti in graduatoria al Provveditorato che guardavano dall’alto in basso quelli non ancora abilitati che poi si rivalevano – in un moto di darwinismo sociale degno delle pagine più cruente di Verga - su noi poveri supplenti a cottimo, paria negletti e cenciosi ma oltremodo aggressivi nella brama del nostro straccio di cattedra. Quelli che da bravi causidici e legulei con il loro latinorum si intrufolavano tra leggi, leggine, commi e codicilli di una legislazione bizantina per trovare, grazie all’aiuto di qualche segretario compiacente, una scorciatoia per l’assunzione: “Dicono che se fai un minicorso per il sostegno ai disabili, finisci dritto filato in ruolo! Ma, zitto, tienitelo per te…”. Mentre sullo sfondo si stagliava il monolito immanente e salvifico del concorsone, del mega-concorso, del concorso dei concorsi e ancor meglio della sanatoria tombale che avrebbe immesso in ruolo - così almeno narravano le leggende narrate da sindacalisti forforosi e con il ditino alzato davanti al focolare - diecimila precari in blocco.

E poi, meravigliosi e inermi, quei professori di classe e di vita, quegli eroi senza macchia e senza paura, che alla faccia dei due milioni di lire al mese, della dequalificazione del loro profilo professionale (“Che lavoro fai? L’insegnante? Ah ah ah…”), delle tempeste ormonali degli alunni brufolosi, dello stalking seriale subìto da genitori bambini che lei ce l’ha col mio piccolo bisognoso di ciribiricoccole e di tutto il resto di quella palude ammorbante, esercitavano il lavoro più bello che c’è - perché insegnare a dei ragazzi in fiore è la cosa più bella che c’è, questa è la verità - con una tenacia e una competenza commoventi. Eroi.

Questo era il mondo dei supplenti. E questo sarà, nei secoli dei secoli qui, nella repubblica delle banane. Ma non per noi. Noi volevamo altro. Emozioni. Protagonismo. Implacabile selezione thatcheriana. E proprio per questo in tanti abbiamo mollato il mondo polveroso della scuola per lanciarci in quello rutilante e meritocratico del giornalismo.

Risate…

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