Lo stupro smentito
E la decenza che non c’è

Ogni tanto dovremmo recuperare il senso della decenza. Non sempre, per carità. Siamo pur sempre esseri umani e gli esseri umani, per genetica e per cultura, sono destinati all’indecenza. Ma almeno ogni tanto, sì.

Uno dei casi più eclatanti della nostra miseria esistenziale, e al contempo dei più tristi, dei più meschini, dei più pedagogici, è quello dello stupro di gruppo che sarebbe avvenuto il 5 marzo dentro un ascensore di una stazione ferroviaria della Circumvesuviana. Lì si sarebbe consumata la violenza di tre diciannovenni ai danni di una ventiquattrenne inerme.

I ragazzi erano stati rapidamente identificati e arrestati, ma poi, nelle settimane successive, uno dopo l’altro, l’ultimo giusto un paio di giorni fa, sono stati scarcerati dai giudici del Riesame. Tutti liberi. La relazione stilata dai magistrati è ineccepibile: il rapporto sessuale è avvenuto di certo, ma è stato consenziente e questa svolta fa ora vacillare paurosamente il processo perché – questo l’aspetto tristissimo, mortificante della vicenda - coinvolge una ragazza di grandissima fragilità, segnata da un profilo psicopatologico friabile e afflitta da un disturbo ossessivo compulsivo anche nella sfera sessuale, che la porta spesso a diventare e a definirsi una bugiarda patologica. Una vicenda angosciante nella quale convivono una giovane indifesa nei confronti degli altri e di se stessa e tre poveracci, tre mentecatti, tre merde - ma non tre stupratori - che se ne approfittano. E proprio per questo motivo, su tutto questo sarebbe meglio calare una velo di silenzio e di riflessione - in attesa del giudizio del tribunale - nel rispetto di una tragedia umana dalla quale tutti e quattro usciranno devastati.

Ma il punto non è questo. Sarebbe troppo facile. Il punto vero è che dopo la terza e ultima scarcerazione, quella che ha dimostrato con dettagli anche filmati la plateale infondatezza della ricostruzione fornita dalla ragazza agli inquirenti, non è partito alcun circo nella politica e sui media, che come sempre, in questa repubblica dei datteri, marciano a plotoni affiancati sui binari del trionfo del cialtronismo. No, adesso, quando la frittata è stata fatta e il caso si è sgonfiato, tutti zitti, tutti distratti, tutti in altre prioritarie faccende affaccendati. Però noi, che non siamo nati ieri, ce la ricordiamo bene la canea, la cagnara, la suburra, l’osteria di rutti, pendagli, cappi e garrote che si era scatenata solo pochi giorni prima, quando erano stati scarcerati i primi due. Il trionfo del patibolo, lo strabordìo della retorica manettara e maledetti e schifo e inaudito e farabutti e buonisti e giudici maiali e toghe rosse e come si fa a lasciare liberi gli stupratori di una povera innocente e ministri della Difesa che senza alcun titolo, ma a pieno titolo in quanto donna, a ululare che si difendano pure, ma stando in galera, e vicepremier tuttologi come il sempre più meraviglioso Di Maio - perché, potevamo perderci il Di Maio di giornata? - che senza alcun titolo, ma a pieno titolo in quanto napoletano e metafora della rettitudine nazionale, a ululare che era una vergogna. E, a cascata, deputati, consiglieri regionali, segretari circoscrizionali, delegati alle varie ed eventuali, responsabili della macchinetta del caffè, saltimbanchi, mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà tutti lì a sbraitare, a minacciare, a vaticinare, a straparlare. A trombonare.

E senza che nessuno avesse letto gli atti, avesse studiato le motivazioni, avesse approfondito la vicenda, avesse indagato sulle evidenti contraddizioni del racconto della vittima. Ma d’altra parte hanno ragione loro. Da quando in qua un politico si deve pure informare prima di parlare? Qui ormai il primo che si alza comanda, il primo che passa per la strada dice la sua baggianata e poi va a farsi un mezzo litro di rosso in fiaschetteria, dove basta sparare un “basta negri!”, un “dagli alla casta!” e, soprattutto, un “la gente non ne può più!” per prendersi la patente del politico tutto d’un pezzo. Ma li possiamo ben capire, i nostri statisti, tanto ci pensa la libera stampa a verificare, a indagare, ad approfondire, a divulgare alle masse puri distillati di verità. E infatti la poveretta della stazione noi fenomeni dei media l’abbiamo trasformata nell’ennesima madonna pellegrina del #metoo alla scottadito, del femminismo straccione delle reducesse dei formidabili anni Settanta, del circo della retorica sulla dittatura del maschio alfa, delle pagliacciate su questa nuova Italia che non ci piace e che picchia i rom, spara agli africani e stupra le vergini. E dando la stura, per converso, alla demonizzazione demoniaca degli uomini padri padroni che picchiano e sfregiano e violentano e uccidono e alle minacce di morte contro i ragazzi e a tutto lo spurgo, la fogna e il vomito che impera nella tropopausa del web, nella quale noi pennivendoli da due soldi offriamo sempre il meglio di noi stessi. Ma non è che sarebbe meglio verificare le notizie, prima di dare aria alle nove colonne, putacaso?

Poveri ingenui che siamo. La verità è che questo non importa a nessuno. In questa vicenda, come nelle altre, in tutte le altre, interessa solo prendere un pezzo, un trancio, uno spicchio di quello che è funzionale al proprio obiettivo killeristico e farne carne di porco per la propria battaglia politica ed editoriale. Questo è il punto, questa è la sbobba da riversare nelle fauci spalancate e avide di noi babbei del Corano digitale, perché è l’unica cosa che ci preme: essere rassicurati e aizzati e pettinati e vellicati nelle nostre risibili convinzioni, nelle nostre fanghigliose frustrazioni, nelle nostre patetiche aspirazioni. Per coltivare cultura, obiettività e rigore ci vorrebbero altri politici, altri mezzi di informazione e, soprattutto, altri esseri umani. Ma aprite le finestre e date un’occhiata di sotto: di altri esseri umani non ce ne sono. Questo è ciò che siamo, ciò che vogliamo, ciò che resteremo e ciò che ci meritiamo.

@DiegoMinonzio

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