Ma come finiscono
le partite degli altri?

Uno guarda le partite degli altri e si chiede: ma come vivono questi? Per novanta minuti corrono sul campo, tirano, parano, si mettono le mani dove conviene quando parte una punizione e, nel momento in cui l’arbitro fischia la fine, piangono o gioiscono a seconda del risultato.

Sarà normale? A noi sembra un po’ strano. Nella partita noi ci mettiamo tutto e poco importa se il tutto di cui sopra è, in gran parte, grottesco. Anche con la complicità dell’Uruguay, l’Italia ha giocato ieri una partita terrificante: per bruttezza stilistica, per impotenza offensiva e per stitichezza tattica. Potevamo anche passare il turno perché l’Uruguay, ci ha messo del suo. A tratti, è sembrato di rivedere la scena di un vecchio film del Fratelli Marx: Chico davanti a una cornice finge di essere il riflesso di Groucho e quest’ultimo, con rapide movenze non prive di goffaggine, tenta a sua volta di smascherarlo. Così è accaduto sul campo di Natal, solo che, a differenza della commedia cinematografica, non c’era niente da ridere. Piuttosto, era uno scambio di bruttezze riflesse: tu mi dai un pestone, io ti rifilo uno schiaffo, io ti caccio le dita negli occhi e tu mi schiacci un piede. Suarez, esagerato, si è prodotto in un assolo ed è arrivato al punto di masticare Chiellini, grave scorrettezza e, insieme, esperienza che crediamo sgradevole. L’idea, per entrambe le squadre, era di andare avanti, approdare a un risultato. Mettiamo che ci fossimo riusciti noi: come saremmo andati a giocare gli ottavi di finale? Con i Brutos sulla linea difensiva, i fratelli Santonastaso in cabina di regia e, in sostituzione dello squalificato Balotelli e dopo aver rimosso Immobile dal campo come si fa con i nani da giardino, con la coppia Fantozzi e Filini in attacco?

Ma il dubbio sulle partite degli altri viene soprattutto nel dopopartita. Loro si accontentano di due battute, qualche polemica e una birra. Noi andiamo a fondo nella catarsi. Il Paese - unito fino a un minuto prima della gara, già separato in fazioni alla fine del primo tempo, definitivamente spappolato nei minuti di recupero - si rivolta contro i suoi eroi scaricandoli alla velocità della luce: «A lavorare lazzaroni!».

Dalle poltroncine degli studi televisivi, gli opinionisti solleticano l’indignazione popolare. Solo che «banda di brocchi» nel loro gergo diventa «fallimento del progetto tecnico» e « tutti in miniera» si articola come «ripartenza su forze non compromesse». La catarsi, ieri, ha poi raggiunto il sommo ridicolo delle doppie dimissioni carpiate. Si dimette Prandelli e al suo fianco Abete, colto dalla vertigine del vuoto, dimentica per un attimo le conseguenze di ciò che sta per fare e si butta pure lui: «Anch’io! Anch’io! Mi dimetto pure io. Anzi, volevo già dirlo prima di lui!».

Intorno, l’assordante rumore di chi parla e parla senza mai ascoltare gli altri. Il senno di poi diventa la più svergognata arma dell’indignazione: «Questo è il livello del nostro calcio» (detto da chi ci vedeva in finale), «C’è profonda crisi tecnica e strutturale del settore» (lo ha sostenuto chi, dopo la partita vinta contro l’Inghilterra già faceva spazio in bacheca per la Coppa). Fino a quando, naturalmente, uno vede l’arbitro che passa e dice: «E’ colpa sua!». E allora tutti d’accordo: E’ colpa sua! Acchiappalo! Dagli!

In fondo qualcuno l’aveva già detto: allenare gli italiani non è impossibile. È inutile.

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