Ma ora la stazione
torni alla città

Non è stata una bella giornata, quella di ieri, dalle parti della stazione. Come per certi versi prevedibile, la maggior parte degli stranieri accampati da quasi tre mesi ha rifiutato il trasferimento nel campo allestito in via Regina dalla prefettura, con Caritas e Croce rossa. I migranti hanno spiegato di avere paura di essere rinchiusi, di temere la schedatura, di temere per la loro libertà, la libertà di andare e venire, di tentare il grande salto verso il nord, di farsi mille volte respingere dagli svizzeri e di riprovarci comunque altre mille e poi mille ancora. Lo hanno detto in tutte le salse, ripetendolo alle decine di troupe televisive che ormai stazionano fisse in città. Ieri - per la cronaca e tanto per comprendere la portata del fenomeno mediatico -, c’era addirittura una tv cinese con un inviato precisissimo che ha chirurgicamente raccolto, microfono in pugno, il parere di decine di profughi.

Comunque: il problema è sempre lo stesso, e se n’è avuta la riprova. Non che etiopi e somali non siano in grado di formarsi autonomamente un’opinione, ma è un dato di fatto che molti di loro - spaesati, stanchi e affamati - attribuiscano grande credito alle “associazioni” e ai gruppi di “no borders” che in queste settimane hanno provato a sostenerli e ad accudirli, creando una sorta di percorso parallelo a quello tratteggiato da Caritas e istituzioni. I presupposti sono probabilmente nobilissimi, ma gli effetti dei consigli elargiti da questo manipolo di ragazzotti rimangono devastanti. Sono loro, i “no borders”, i principali fautori della grande fuga, loro quelli che, ancora ieri, riuscivano nell’impresa di convincere molti migranti (non tutti, per fortuna) della necessità di sottrarsi con tutti i mezzi possibili ai buoni servigi delle istituzioni, il cui unico autentico obiettivo sarebbe non già quello di aiutarli ma quello di limitare la loro legittima sete di libertà, imprigionandoli, schedandoli, addirittura - orrore! - acquisendo le loro impronte digitali.

Naturalmente, al campo allestito in via Regina, non succede nulla di tutto questo. Nessuno viene schedato, a nessuno viene richiesto di sporcarsi i polpastrelli con dell’inchiostro nero, a nessuno sarà impedito di entrare e uscire liberamente, dall’alba al tramonto. C’è soltanto una necessità non più procrastinabile di ristabilire un po’ di ordine tra il parco e l’atrio della stazione, ridotti da settimane come tutti sanno, e magari di allontanare tutti quei provocatori che, sempre ieri, accusavano le istituzioni di mangiare e di riempirsi la pancia sulla pelle di questa gente.

Alla fine, quando il trasloco si sarà concluso - vinte anche le ultime sacche di resistenza - non si potrà sostenere che la città non abbia fatto in questi mesi il suo dovere, che non abbia aperto le porte all’accoglienza, che non si sia rimboccata le maniche. Di spazio per le illusioni non ce n’è più, questo è quello che passa il convento: un campo allestito da una comunità che, al netto di qualche inevitabile posizione più estrema, ha mostrato disponibilità e buon cuore (basti pensare al numero dei volontari che hanno lavorato nelle mense e al numero di tutti coloro che in queste settimane si sono prodigati raccogliendo cibo e vestiario) e che oggi chiede semplicemente il ripristino di un po’ di ordine e di qualche regola. È una richiesta legittima, che tocca da vicino il concetto di dignità, la nostra e la loro, e alla quale, in qualche modo, bisognerà dare un seguito. Magari cominciando a liberarsi di tutti i sobillatori che, loro sì, sulle spalle dei migranti stanno, se non mangiando, quantomeno marciando. Forza ragazzi, andiamo a casa: le vacanze sono finite.

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