Mastrapasqua e la grande
bellezza dell’italia

È vero. L’esistenza è triste, ingiusta, spietata, avarissima di gioie e soddisfazioni e straboccante invece di cadute, tradimenti, meschinità e solitudine, veri motori immobili di un mondo malvagio dal cuore selvaggio. Eppure, a pensarci bene, nella vita c’è pure di peggio. Mai stati a cena con un falso laureato?

Il tipo umano in questione - generalmente riconoscibile per la languida prosopopea, il fervorino con il dito alzato dopo il terzo giro di bianchi e l’inquietante tendenza a distrarsi quando il cameriere porta il conto - rappresenta un vero tòpos della struttura sociale e psicologica di un paese sudamericano come il nostro, che da sempre basa tutto sulle apparenze e niente sui contenuti. Il tema, vecchio come il mondo e fonte d’ispirazione dei massimi analisti del cialtronismo nazionale - Flaiano, Longanesi e Alberto Sordi - è tornato di stringente attualità grazie a uno scoop di “Libero”, che nell’edizione di ieri rivelava come il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, già nel gorgo delle polemiche a causa delle sue venticinque poltrone e di un’indagine per truffa ai danni dello Stato che lo hanno spinto proprio ieri alle dimissioni, sia stato condannato negli anni Novanta per aver comprato, grazie alla complicità di alcuni bidelli, esami universitari mai sostenuti. E, quindi, che la sua laurea in Economia e commercio conseguita nel 1984 è falsa. Ora, in un qualsiasi paese civile dell’Africa boreale a un personaggio del genere non sarebbe permesso di mettere il naso fuori da casa, ma visto che qui siamo nella repubblica di Pulcinella, Mastrapasqua ha invece tranquillamente inanellato un carrierone coi fiocchi e controfiocchi con tanto di stipendio milionario. Non solo, probabilmente è così convinto di essere comunque a posto con la propria coscienza da aver rilasciato sempre a “Libero” alcune battute degne di “Vacanze a Cortina”: “Ma dopo mi sono laureato per davvero e sono diventato pure giornalista pubblicista!”. Giornalista pubblicista! Risate. Applausi. Un gigante del Novecento.

Ora, il primo dato antropologico che si può trarre da questa vicenda tra l’inqualificabile e il grottesco è quanto sia ancora forte, nella nazione dove il titolo di dottore non si rifiuta a nessuno, il magnetismo del pezzo di carta. Quanti ne abbiamo visti e quanti ne vedremo - dato che dall’inchiesta potrebbero uscire nomi di “imprenditori che oggi stanno sulle prime pagine dei giornali” - beccati a trescare con lauree di cartone, master fasulli e inesistenti scuole di alta specializzazione. E non tanto per avere i requisiti necessari per accedere a un qualche incarico, ma soprattutto per esibirsi durante qualche talk show di tendenza o qualche terrazzata intellettualoide radical chic e tirarsela da fenomeni grazie ai (finti) corsi ad Harvard. Senza dimenticare la pletora di perenni fuori corso in Scienze politiche che tanti scienziati e statisti ha donato in questi ultimi trent’anni al mondo della politica e della comunicazione.

L’altro dato è invece davvero salutare perché ci aiuta a mettere la parola fine alla retorica declamata negli ultimi due anni sulla superiorità antropologica dei tecnici rispetto alla vecchia e disdicevole politica politicante e politicata. Ve le ricordate le sviolinate sugli ottimati, i trilaterali, gli aspeniani, i rigorosi cultori dei bilanci e delle pianificazioni meritocratiche, gli asettici, gli ascetici, i solo all’apparenza grigi burocrati ma invece ferrei enarchi della nobilità dello Stato e tutto il resto dei luoghi comuni da quattro soldi con cui abbiamo messo via tutta la classe politica, esattamente come è stato fatto vent’anni fa durante il crollo della prima Repubblica? Togli il tecnico, mettici il magistrato e la solfa è esattamente la stessa. Bene, sono bastati un paio di anni e si è visto di che pasta sono fatti i meravigliosi tecnici italiani: la stessa dei politici. Tanto è vero che a un solo sospiro dell’incommensurabile Mario Monti ci si sdilinquiva tutti quanti come gatte in amore e invece adesso, dopo il florilegio di pateracchi che ha combinato in una sola e breve esperienza di governo, anche l’ultimo degli ubriachi si sente autorizzato a prenderlo a torte in faccia; alla prima tenera lacrimuccia della Fornero scattava subito il parallelo con la ferrea Thatcher mamma disperata per le malefatte del figlio balordo mentre ancora oggi ci sono torme di esodati che la inseguono con le picche in mano; per finire con il budinoso ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che con la seguente dichiarazione - “Gli evasori fiscali hanno i giorni contati” – oltre ad averci regalato un pomeriggio di omeriche risate più gustose di un ammazzacaffè, si è pure aggiudicato il premio per la battuta top di gamma del mese. Da lì in giù, diciamoci la verità, è tutta la stessa manfrina, compresi i grand commis da operetta alla Mastrapasqua.

Certo, è vero che la nostra politica è una roba che fa schifo e che ci vorrebbe un nuovo vocabolario, ci vorrebbero delle parole nuove – basti pensare alle sceneggiate vergognose dell’altro giorno in Parlamento – per definire il grado di inadeguatezza della maggior parte dei nostri amministratori. Ma la soluzione non è quella tecnocratico-massonica. Che magari avrà un senso all’estero, ma qui no di certo. Perché qui il ganglo perverso e maledetto di commistione di poteri forti, poteri eterni e poteri marci si avvoltola tutto su se stesso e tiene dentro ogni cosa – politica, finanza, burocrazia, informazione – e nulla si decide fuori da quello e nulla si muove in sua assenza. Stessa cultura, stessi orizzonti, stessi confini, stesso imprinting basato sull’imperativo categorico secondo il quale non conta mai la competenza ma sempre e solo l’appartenenza, la cooptazione, l’affiliazione, la filiera, il familismo mai così amorale.

È questa la vera “grande bellezza” dell’Italia dei Mastrapasqua, altro che quella di Sorrentino, e tutti voi e tutti noi povero popolo bue non possiamo farci niente. Forse.

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