Non sempre vale
la legge dei byte

Una volta, era vero se lo dicevano i giornali. Tempi remoti, dimenticati e scomparsi insieme alla reputazione dei giornalisti. Poi è stata la volta della radio e della televisione: «Hai sentito che cosa ha detto la radio?», «L’hanno detto ieri sera in tv». Oggi, è vero se lo dicono i software.

C’è una differenza: dietro i giornali, la radio e la televisione c’erano sempre delle persone le quali avevano il preciso compito di dire, se possibile, le cose come stavano. Toccava a loro saperle, le cose, verificarle e comunicarle nei dovuti modi. Se facevano un errore - e ne facevano, così come continuano a farne -, l’errore aveva un nome e un cognome: il cronista di turno, il notista politico che non aveva capito una mazza, il radiocronista che aveva scambiato Rivera per Bulgarelli oppure, in ultima analisi, colpa, vergogna e condanna penale ricadevano sul direttore responsabile. Che si chiama “responsabile” non solo perché suona bene sul biglietto da visita.

I software non offrono alcuno spazio al ripensamento, non concedono e non si concedono nessun margine d’errore: sono infallibili. O meglio, siamo noi a considerarli tali. Una volta programmati - e qui intravediamo, con molta vaghezza, l’unico intervento umano - i software fanno ciò che diciamo loro di fare: non sbagliano perché non si stancano, non sbagliano perché non sono svogliati, non sbagliano, infine, perché non sanno di poter sbagliare. Ecco perché, spesso, davanti all’autorità, la parola dei software prevale su quella degli esseri umani.

A farci riflettere su questa impostazione mentale ormai consolidata interviene un caso di cronaca. Riguarda il comandante dei vigili di un Comune del Comasco licenziato per irregolarità riguardanti il software che gestiva il “cartellino” di entrata e uscita dal servizio. Una vicenda complessa per la quale, da un punto di vista penale, non ci sarà conseguenza: la Procura ha disposto l’archiviazione. Il giudizio complessivo, però, va sospeso, visto che, per fare ulteriore chiarezza sull’episodio, in Comune è al lavoro una commissione d’inchiesta.

A noi, questa storia vien buona per osservare come la tendenza sia quella di affidare ai computer verità e giudizi che, al ben guardare, meglio sarebbe rimanessero confinati al pur imperfetto raziocinio umano. E il pasticcio del vigile, infatti, richiede un intervento umano per essere sbrogliato. Non sempre accade perché, nella forma mentis collettiva, la verità dei computer gode di una reputazione ben superiore a quella delle persone.

Sappiamo bene quanto gli umani siano impostori, inattendibili e fertili soltanto in sotterfugi e scorciatoie morali. Per questa ragione ad aziende, enti ed autorità varie non è parso vero in questi anni di poter disporre di uno strumento oggettivo, indifferente alle moine e alle adulazioni, incorruttibile e adamantino. L’irregolarità segnalata da un computer viene presa molto sul serio, come se calasse da un’autorità superiore alla quale non è lecito mentire: in virtù di questa sensazione, si sottovalutano errori, sabotaggi, manipolazioni. Certi della nostra immaturità, dell’approssimazione insita nei nostri geni e dell’increata disonestà della specie, abbiamo consegnato ai computer ogni possibile responsabilità: dai progetti industriali alla creazione artistica. Ora vorremmo anche che ci facessero la morale.

Non funziona così. L’uomo alla fine deve sempre fare i conti con se stesso. Non esiste una superiore autorità virtuale, un’infallibile legge fatta di byte: l’imperfezione e perfino la corruzione penetrano anche nei circuiti stampati. E meno male: altrimenti al “Processo” di Kafka avremmo dovuto aggiungere un capitolo molto, troppo tecnologico.

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