Pelù e i riti decrepiti
del festival sindacale

Quando dal palco del concertone del primo maggio Piero Pelù – un rocker in disarmo in avanzatissimo stato di bollitura – ha marchiato con le cosiddette parole di fuoco il tuttologico presidente del Consiglio, abbiamo avuto la conferma che ogni paese ha i maestri di pensiero che si merita.

E i nostri non deludono mai. Così come non delude mai il festival sindacale che da mille anni, alla faccia degli ascolti sempre più decrescenti, ci rifila Verbi inscalfibili, intemerate al potere delle multinazionali, litanie e messe cantate sui valori fondanti, fondati e fondativi della Repubblica democratica e antifascista e resistenziale e pacifista e solidale costruita sulla Costituzione più bella che c’è, rosari imprescindibili per tutti gli adepti della cultura dell’alibi, perché lo Stato dov’è e lo Stato non c’è e lo Stato cos’è. E il tutto salmodiato da stuoli di cantautori più o meno forforosi, tutti ovviamente compresi nel ruolo e impegnatissimi nel sociale e, chissà perché, tutti quanti organici a una sola scuola di pensiero. Se ne trovasse uno che avesse almeno una mezza idea differente dagli altri, macché, tutti allineati e coesi e adesi alle magiche primavere del Sessantotto e alle meravigliose meraviglie della concertazione e all’eroica utopia del dare voce agli ultimi e tutti quanti a trillare su Garcia Marquez e Macondo di qua, a cinguettare su Micromega di là, a pigolare sugli orizzonti inesausti del riscatto del quarto mondo dall’altra parte ancora. E invece giù fulmini e saette sul nemico interno - come recitato nel temino di mastro Pelù -, perché, signora mia, e anche la mamma dell’ex Litfiba lo ha confermato, il vero nemico si chiama disoccupazione, voto di scambio, corruzione, senza dimenticare la P2, la mafia, la camorra e pure la ‘ndrangheta, che grazie al repertorio delle belle intenzioni un applauso indignato lo si porta sempre a casa. Un vero peccato che poi il rocker fiorentino si sia dovuto mettere a cantare, perché altrimenti avrebbe potuto arricchire il suo elenco di rivelazioni con un’altra serie di verità nascoste ma inoppugnabili e proprio per questo sgradite ai padroni del vapore e a lorsignori della politica politicante, quali ad esempio “mogli e buoi dei paesi tuoi”, “chi troppo vuole, nulla stringe” e l’indimenticabile “si lavora e si fatica…”. Il livello è questo, niente di scandaloso, per carità, che siamo tutta gente che ha fatto il militare a Cuneo, e soprattutto niente di nuovo nel canovaccio velleitario dell’appuntamento di piazza San Giovanni. Almeno due, invece, le notazioni di rilievo. La prima, davvero spassosa, è il supremo imbarazzo della sinistra, che si è trovata di fronte a un nuovo e inaspettato fuoco amico, benché questa sia una specialità della casa, che in quanto ad avvelenatori e accoltellatori alla schiena degni della più decadente corte fiorentina la sinistra italiana non prende lezioni da nessuno. Ma insomma, dal palco della festa del lavoro si è passati gli anni, i lustri e i decenni a vomitare qualsiasi contumelia contro premier, ministri e potenti vari di estrazione democristiana, socialista e pentapartitica in genere, per non parlare di quei farabutti, delinquenti, mascalzoni di Forza Italia e An, metafore dell’Italia peggiore, un infido conglomerato di ladri, traffichini, cocainomani e maneggioni che congiuravano alle spalle dell’Italia degli ottimati che invece studia e produce e aiuta i bisognosi e tutti lì ad applaudire i Benigni e i Pelù e i Rivera e i Romagnoli e i Castellitto e i Moretti e i mille altri ancora, al punto che anche il primo ubriaco che passava per strada si sentiva autorizzato a prendere Berlusconi a torte in faccia, e adesso salta fuori un tizio a dare del piduista a Renzi e apriti cielo? Somma indignazione. Intollerabile interferenza. Demagogia sudamericana. Milionario da strapazzo. I cantanti pensino a cantare. Quando la politica sfreccia veloce anche il rock resta indietro. Un massacro. Una bastonatura a colpi di tronchi di bambusoideae nella quale si sono distinte le Erinni del nuovo Pd, così fameliche e scatenate nella difesa del premier da dare dei punti anche a belvette del livello della Pascale o della Biancofiore.

L’altra considerazione riguarda invece il sindacato. Il suo ruolo. La sua mutazione antropologica, di cui la deriva del concerto del primo maggio non è che la rappresentazione metaforica. Glielo ha detto anche un politico intelligente, spietato e pragmatico come il presidente della Repubblica: ormai il sindacato viene vissuto come vecchio, come casta, come conservazione, perché ha perso il suo ruolo di soggetto politico capace di incidere sulla società e, soprattutto, ha completamente smarrito la funzione di tutela dei diritti dei lavoratori. Di tutti i lavoratori, non solo di quelli già garantiti. Ma chi crede di rappresentare con questi uomini del passato, queste strutture organizzative inadeguate, con certi istituti (quello dei distacchi, ad esempio) spesso immorali e, soprattutto, con questa cultura che li porta ad arroccarsi nella tutela a oltranza dell’esistente? Il problema è che l’esistente fa schifo, anche perché lì dentro ci sono gli scioperi dei trasporti sempre al venerdì, la ghettizzazione delle pratiche Iva, dei professionisti e dei precari, la difesa a prescindere delle aziende pubbliche anche se cotte e decotte. Ed è un esistente che ci porta dritti filati al disastro e che non si evita di certo con qualche corteo sbandierante il sabato pomeriggio o quattro smargiassate di un cantante dal palco. E poi, quando si gioca al rivoluzionario bisogna essere credibili: da uno che fa il giurato ai talent show e passa da una comparsata televisiva a un’altra sarà ben difficile prendere lezioni di vita. E piuttosto che dare la linea sulle aliquote fiscali, l’articolo 18 e la lotta alla criminalità organizzata, il signor Pelù pensi piuttosto a darsi una svegliata e a rinnovare il suo repertorio, che ormai sono vent’anni che non fa una canzone decente.

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