
C’è un bambino a Gaza che muore di fame. Ha le costole sporgenti, gli occhi spalancati nel vuoto, il ventre gonfio come quelli delle carestie africane. Nessuna colpa, se non quella di essere nato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. La sua immagine, fragile e straziante, sfonda i nostri schermi come un grido muto. E riecheggia, feroce, la domanda che Primo Levi scolpì nella coscienza dell’umanità: “Se questo è un uomo”.
Chiunque abbia a cuore la storia ebraica, chiunque guardi con rispetto la cultura di un popolo millenario, quel popolo in cui è nato e morto Cristo per ridare speranza al mondo, sente oggi una frattura profonda. Chi si è fermato davanti alle pietre d’inciampo, chi ha percorso in silenzio i ghetti d’Europa, chi si è inchinato davanti al male assoluto di Auschwitz, oggi fatica a riconoscere Israele. Non quella terra promessa della rinascita ebraica, né quello Stato laico, democratico e tollerante che aveva affascinato generazioni di intellettuali, progressisti, studiosi. Ma un’altra cosa. Uno Stato che appare ormai smarrito, lacerato, incattivito.
Il 7 ottobre ha segnato una ferita enorme. Hamas ha compiuto un massacro disumano, colpendo civili inermi: bambini, donne, giovani che danzavano in un festival di pace. È stato un crimine orribile, che resterà nella memoria collettiva come un nuovo abisso. Il dolore del popolo israeliano è stato autentico e devastante. Il diritto a difendersi, sacrosanto. Ma il confine tra difesa e punizione collettiva non può svanire.
Da allora, Gaza è diventata un campo di macerie. Migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, ospedali distrutti, scuole rase al suolo, civili intrappolati tra le bombe e la fame. Bambini scheletrici, genitori che non hanno più lacrime. Un’intera popolazione ostaggio di Hamas e insieme strangolata in nome della sicurezza. Eppure, la sicurezza non si costruisce sull’annientamento. La forza di uno Stato non si misura dalla potenza del suo esercito, ma dalla tenuta dei suoi valori.
Hannah Arendt, ebrea, sopravvissuta alla fuga dal nazismo, già decenni fa metteva in guardia contro le distorsioni del sionismo, contro il rischio che Israele diventasse una fortezza etnica, incapace di convivere con l’altro. Il suo pensiero, all’epoca criticato e spesso frainteso, suona oggi profetico. La deriva illiberale, l’erosione della democrazia, l’uso sistematico della forza come unica risposta possibile, sono elementi che tradiscono lo spirito originario del sogno sionista.
C’è chi oggi continua ad amare Israele, a sentirne il legame profondo con la memoria dell’ebraismo europeo, con la cultura della diaspora, con il genio e la resilienza di un popolo sopravvissuto a tutto. Ma non riesce più a giustificare ciò che vede. Non riconosce più quella democrazia vibrante e pluralista, capace di autocritica, ma un sistema sempre più chiuso, trascinato da pulsioni nazionaliste, dominato da politici estremi, incapaci di riconoscere l’umanità dell’altro.
Quel bambino palestinese che muore di fame non è solo una vittima collaterale. È uno specchio. Riflette la distanza tra il patto fondativo di Israele e la realtà odierna. Ricorda a tutti che “Mai più” non può valere solo per sé. Che l’universalità della memoria è l’unico antidoto al ritorno della barbarie. Che non si può gridare all’orrore della Shoah e poi voltare le spalle all’orrore di oggi.
Non si tratta di equidistanza. Non si mette sullo stesso piano un attentato terroristico e uno Stato sovrano. Ma si può – si deve – pretendere che quello Stato, nato dal dolore più indicibile, non tradisca il proprio fondamento morale. Che non smetta di essere umano, proprio quando l’umanità è più difficile da esercitare.
Perché quel bambino – anche quel bambino – è un uomo. Lo è secondo ogni definizione etica, morale, storica. E se quel bambino cessa di essere considerato tale, allora la domanda di Primo Levi torna a pesare su tutti. Se questo è un uomo.
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