Quelli che non se ne
vogliono andare

E non se ne vogliono andare. Era il titolo di una fortunata serie tv di qualche anno fa. Ma vivaddio, quelli che non volevano togliersi dai piedi erano dei giovani, i figli mammoni, al massimo un poco “choosy” come avrebbe detto anni dopo la Fornero: troppo schizzinosi per prendere gambe in spalla quel che la vita può offrire.

Ora la cosa si fa un po’ più sgradevole, considerata anche la crisi che ci stringe la cinghia. Non se ne vogliono andare, e sono tanti, statisticamente tanti, quelli che hanno un posto sicuro e ben pagato, quelli che la pensione la possono spingere in là – non tutti i lavori sono poi così usuranti –, quelli che la Pubblica Amministrazione è pur sempre una mamma dal cuore d’oro. Quelli che.

Andiamo con ordine. Un esempio, magari al limite, ma esplicativo: qualche giorno fa il giudice Giuseppe Tesauro è stato eletto presidente della Corte Costituzionale. Niente da dire. Se non che Tesauro lascerà tra pochi mesi, è prossimo alla pensione. Ma ci andrà coi galloni di presidente, e i conteggi di competenza. Alla Corte Costituzionale, ma in pratica anche per tutte le alte cariche della burocrazia statale, si è sempre fatto così. Un giochetto costoso, cui però nessuno, anche in epoca di spending review, vuole rinunciare.

Poi ci sono i dipendenti di Camera e Senato – lasciamo perdere i senatori: quanta voglia di auto-abolirsi abbiano, loro e i loro emolumenti, non è da spiegare – di cui non diremo l’entità dei compensi, la sapete già. Ma le resistenze, persino sguaiate, che stanno opponendo ai piani per mettere mano i loro stipendio ha qualcosa di perfino di insultante per chi suda per poche centinaia di euro. Poi ci sono le situazioni per così dire “normali”. O gli esuberi previsti di Alitalia. Possibile rischiare di far fallire l’intera baracca, cioè far fuggire l’imprenditore estero, perché una parte – consistente ok, ma tutto sommato piccola – di dipendenti dovrà lasciare, e di certo non sarà buttata a mare?

Abbiamo vissuto un paio d’anni a raccontare, o raccontarci, il dramma degli esodato. Bene. Ma l’altra faccia della medaglia riguarda coloro, e sono molti, che in pensione non ci vogliono andare: non subito, non se possono prolungare (ancora una volta, sarà un caso, sono i magistrati ad essere insorti davanti alla prospettiva di una riforma che metta gli anziani fuori ruolo senza i famosi “prolungamenti in servizio”). E qui siamo sempre nel pubblico, la vacca da mungere che non muore mai. Ma vale la stessa con il privato: soprattutto con le posizioni apicali, o manageriali. Insomma, a opporsi a qualsiasi cambiamento è chi ha situazioni professionali ed economiche più che buone, e poco da rischiare. Se poi questo metta in difficoltà i conti di tutti, o blocchi i turn over, o lasci fuori dalla sala da pranzo i famosi “non garantiti”, è questione che sembra non importare a nessuno. Di certo, non ai sindacati. E qui una bacchettata se la meritano, in alcuni casi almeno, anche i pensionati. Per l’Inps la maggior parte di loro sarebbe quasi alla fame. Ma poi si scopre che i i trattamenti medi di anzianità sono in gran parte superiori ai 1.500 euro: standard europeo. Il Sole 24 Ore ha fatto un’inchiesta: La media di grandi città come Roma e Milano, dove la vita costa di più arriva a duemila euro. Sappiamo che le statistiche alla fine mentono sempre un po’, ma a volte aiutano a riflettere.

E una riflessione da fare è forse questa. L’allungarsi delle aspettative di vita, e il modificarsi degli stili di vita, stanno producendo una specie di nuovo darwinismo sociale: che non riguarda più la sopravvivenza del più forte all’inizio (basso) della scala sociale, ma la permanenza per il maggior tempo possibile di chi sta meglio ai suoi vertici. E chi è in basso, farà sempre più fatica a salire. Sono dati di fatto. Ma sono anche giusti così?

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