Statalismo fatale
a imprese e lavoro

La triste conclusione della vertenza riguardante la Sisme, un’impresa che vede 223 dipendenti perdere il posto e quindi un’intera comunità locale (Olgiate Comasco) dover far fronte a un grave disagio sociale, obbliga a sviluppare ad alcune considerazioni. La vicenda è tutta locale, ma la si può comprendere solo entro una riflessione più ampia.

In primo luogo, è chiaro che l’alta tassazione e una regolazione soffocante stanno progressivamente desertificando una delle aree storicamente più produttive. L’incapacità da parte di Roma di ridurre il peso dello Stato sull’economia produce tali esiti. Il disastro è evidente ovunque, ma soprattutto in Lombardia, una regione penalizzata da una redistribuzione territoriale che non ha eguali al mondo.

Di fronte a drammi come questi, è normale che vi sia chi vorrebbe impedire chiusure o riduzioni degli organici. Ma non è certo una soluzione quella di chi pretende di salvare a tutti i costi situazioni improduttive. L’economia ha leggi che vanno rispettate. Si tratta allora di ricreare quelle condizioni di fondo che possono portare le aziende ad assumere di nuovo, fare prodotti che hanno mercato, realizzare utili.

Merita poi attenzione il sistema protettivo posto a tutela di chi è in difficoltà, ha perso il lavoro, non è in grado di reinserirsi subito nel mondo produttivo.

Anche qui è chiaro che il controllo monopolistico operato dalle strutture pubbliche sui sistemi assistenziali non ha giovato. Circa un secolo fa, da noi come altrove, vi era un fiorire di società di mutuo soccorso gestite dai lavoratori, che le finanziavano volontariamente e in linea di massima le gestivano con oculatezza. Il prelievo che oggi è operato in modo coercitivo dallo Stato, allora veniva destinato da operai e impiegati a istituzioni di loro fiducia, che aiutavano chi si ammalava, perdeva il posto, era in difficoltà. Fu quel tipo di mutualismo che a lungo sostenne i lavoratori bisognosi e, a distanza di tanto tempo, bisogna riconoscere come quelle risorse fossero assai meglio amministrate. Non era in alcun modo pensabile, ad esempio, che ci fossero disoccupati che venivano aiutati, attingendo al fondo comune, e che al tempo stesso svolgevano un lavoro non dichiarato. Né soprattutto era possibile che si agisse in maniera gravemente discriminatoria: sostenendo taluni e ignorando altri.

Avendo accettato la statizzazione di tale settore, ora ci troviamo a fare i conti con burocrazie inefficienti che nei decenni hanno sprecato enormi risorse e operato in maniera assai discutibile. Non soltanto si sono sovrapposte l’assistenza e la previdenza, ma questo ha pure permesso un gran numero di abusi.

Anche qui l’unica strada ragionevole può consistere nel liberare le energie della società e favorire un processo di responsabilizzazione. Bisogna che tutto il sistema sia più localizzato, in modo tale che sia facile verificarne la gestione. E bisogna soprattutto che quanti finanziano la protezione sociale possano scegliere dove destinare le loro risorse e in tal modo optare per chi garantisce una qualità più alta.

Il ventesimo secolo è finito da tempo: bisognerebbe prenderne atto anche di fronte a tali problemi.

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