Il delitto in armeria
Il caso è risolto. Anzi, no

Ci sono ancora molte ombre a nascondere la verità e molti dubbi sul prima, sul durante e sul dopo quei tre spari esplosi da Alberto Arrighi. Per fare ordine e radunare i fatti, tentiamo di trovare una risposta alle domande sulla bocca di tutti

COMO È ancora via vai negli uffici della squadra mobile, a dieci giorni dall'omicidio di Giacomo Brambilla. Persone che entrano, vengono sentite a verbale e poi si rituffano nel gelo di viale Innocenzo. Basterebbe questa immagine per far capire che l'inchiesta sul delitto nell'armeria Arrighi è tutt'altro che chiusa. Ci sono ancora molte ombre a nascondere la verità e molti dubbi sul prima, sul durante e sul dopo quei tre spari esplosi da Alberto Arrighi. Per fare ordine e radunare i fatti, tentiamo di trovare una risposta alle domande sulla bocca di tutti.
- Perché Daniela La Rosa, la moglie di Arrighi, non è sotto inchiesta per aver aiutato il marito a ripulire l'armeria?
Sui gruppi di Facebook in cui si parla del delitto di Giacomo Brambilla in molti ipotizzano chissà quali favoritismi per proteggere una «famiglia della Como bene». Nulla di tutto questo. Daniela La Rosa, infatti, in linea puramente teorica dovrebbe rispondere di favoreggiamento personale del marito («chiunque, dopo che fu commesso un delitto, aiuta taluno a eludere le investigazioni è punito con la reclusione fino a 4 anni»): il codice penale, però, scrive nero su bianco che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore».
- Alberto Arrighi ha raccontato che Brambilla gli aveva rovinato la vita e che le sue pretese erano sempre più pressanti. Perché, invece di arrivare al punto di uccidere, non ha mai fatto denuncia?
Prendendo per buone le confessioni di Arrighi (che devono essere ancora verificate), qualora lui avesse deciso di denunciare l'asserito ricatto il giorno dopo avrebbe rischiato la revoca della concessione - comprensibilmente molto delicata - per la vendita delle armi e, di conseguenza, la stessa attività.
- Perché decapitare il cadavere dieci ore dopo l'omicidio?
Per far scomparire le prove che avrebbero legato il delitto alla Ruger calibro 22 in vendita nell'armeria di Arrighi (cioè i proiettili conficcati nel carnio) e, in parte, per ritardare l'identificazione del corpo.
- Perché il delitto potrebbe non essere un delitto d'impeto?
Per la scelta delle armi: Arrighi non ha mai impugnato la sua calibro 40, bensì ha preso dapprima un pistola da tiro a segno e poi l'arma della vittima, per il colpo di grazia. Appare strano, inoltre, che la Ruger 22 fosse carica e pronta per l'uso. Lascia perplessi gli inquirenti anche la scelta del lunedì, giornata di chiusura del negozio, per l'incontro risolutivo delle controversie economiche con Brambilla. Nel video, poi, compaiono fotogrammi che fanno pensare più a un gesto meditato, piuttosto che d'impeto. Lo stesso Arrighi, infine, ha detto di aver pensato di chiarire i rapporti con la vittima già da sabato, due giorni prima il delitto.
- Arrighi rischia l'ergastolo?
Potenzialmente sì, ma solo qualora la procura dovesse contestargli l'aggravante della premeditazione. In questo caso, compreso l'aumento della condanna finale fino al triplo per la distruzione del cadavere, la pena di partenza potrebbe anche essere il carcere a vita. Considerata l'assenza di precedenti e la confessione è lecito attendersi però uno sconto, unito a quello previsto dalla scelta del rito abbreviato.
- Cosa rischia il suocero?
Da due a sette anni di reclusione. Difficilmente, però, il pm resterà sui minimi della pena. Il reato di distruzione di cadavere è aggravato «dall'aver eseguito il reato per occultarne un altro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA