I gioielli di S. Abbondio
in un nuovo libro

Oggi all'Università dell'Insubria la presentazione di volume che analizza i preziosi dipinti della basilica

COMO - I dipinti della basilica di Sant'Abbondio a Como, illustrati da oltre 500 fotografie in un libro con nuovi contributi di conoscenza su quelle opere dell'arte del Trecento in 318 pagine.
È l'invitante promessa dell'appuntamento di questo pomeriggio alle ore 17.30, presso l'Aula Magna dell'Università dell'Insubria (via Sant'Abbondio 12, Como) per la presentazione del libro, cui seguirà una visita alla basilica.
Il volume, sostenuto dal Gruppo Credito Valtellinese, è stato promosso nell'ambito delle iniziative per il millenario di fondazione del monastero di Sant'Abbondio (1010-2010).
Non pochi sono stati gli studi dedicati finora alla basilica e se ne può leggere su La Provincia del 23 novembre.
Qui sotto alcuni articoli sugli affreschi pubblicati su La Provincia.

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Recuperata una migliore leggibilità e risanati dal restauro dell'Accademia Aldo Galli di Como curato da Vanda Franceschetti grazie al sostegno economico della Famiglia Comasca guidata da Piercesare Bordoli, gli affreschi di Sant'Abbondio si offrono al godimento del pubblico e alla riflessione critica. In attesa di un nuovo volume sulla basilica previsto per la fine dell'anno, ci permettiamo qualche considerazione a margine dei dipinti che rivestono l'abside, le volte del presbiterio e la parte superiore di quelle pareti.
Il ciclo trecentesco, pur tanto articolato, ha una sua intrinseca unità, come chiaramente ha illustrato al pubblico presente all'inaugurazione del restauro, in occasione della festa patronale, don Andrea Straffi, responsabile del patrimonio artistico diocesano e acuto interprete di quei dipinti.
L'intervento sull'arco trionfale che fu deturpato dalla volta cinquecentesca rimossa nei restauri ottocenteschi di Serafino Balestra ha reso meglio evidenti le figure dell'arcangelo Gabriele e di Maria che riceve il suo annuncio e ha permesso di prender consapevolezza di una sottostante precedente decorazione. I santi del sottarco rivelano oggi una finezza prima offuscata, ma gli affreschi nelle vele dell'ampia volta che sovrasta il presbiterio hanno recuperato solo ai margini qualche evidenza: sufficiente ad ogni modo per confermare che anche qui il cielo era stellato come nella contigua volta prossima all'abside e che le sagome cuspidate dovevano effettivamente essere quattro troni perché nella vela meridionale si è salvata la porzione del seggio a sinistra di chi osserva. L'analisi delle figure presenti nel ciclo consente di ritenere che quei troni costituissero le cattedre dei quattro dottori della Chiesa Latina: i santi Ambrogio, Agostino, Gerolamo e Gregorio le cui effigi sono completamente scomparse.
Le cause di una perdita tanto vasta, già da tempo verificatasi all'epoca del restauratore Pelliccioli nel 1930, non è stata del tutto chiarita.
Neppure l'intelligente ipotesi di un crollo a seguito del cedimento del campanile settentrionale nel 1784 sembra sia stata del tutto confermata dalle indagini delle murature. Ma la conservazione di lacerti proprio soltanto presso l'attacco della volta, a nord e a sud, lasciano aperto il sospetto di un'abile ricostruzione ottocentesca.
Si è detto che il messaggio del ciclo è incentrato sulla figura di Cristo presente al centro dei sottarchi e dominante al centro in basso nella Crocefissione nelle storie della sua vita, in alto fra Maria e il Battista nella Deesis o intercessione che prelude al Giudizio finale nella calotta absidale.
È riconosciuto che le storie suddividono in modo inusuale un'ampia narrazione dell'Infanzia di Gesù, attraverso soltanto quattro riquadri con momenti della sua vita adulta: il Battesimo contrapposto alla Tentazione di Satana nel deserto, l'Entrata a Gerusalemme contrapposto al Tradimento di Giuda: una scelta didascalica per i fedeli che, non ammessi in quella zona consacrata, potevano leggere bene da lontano questi episodi, quasi come degli "spot" pubblicitari. Si è spiegata con riferimento alla genealogia umana della Casa di David la serie dei Re d'Israele disposti nell'arcone che immette nell'abside, e sulle quattro semicolonne che la innervano i simboli degli Evangelisti che interrompono la serie degli apostoli disposti alla base del ciclo, ma mi pare che non si sia data spiegazione della disomogenea serie di personaggi che si affacciano da medaglioni sovrapposti lungo le semicolonne: santi, uomini di vario aspetto, anche truce, animali reali o fantastici, il tutto ricavato dai repertori della scultura romanica e da miniature, disposto senza un criterio plausibile.
Siccome si frappongono alle scene della vita di Gesù il loro significato generale credo vada inteso come metafora del mondo, tanto vario, fatto di bene e di male, nel quale Dio ha scelto di incarnarsi. La riprova di questo significato si trova più in alto nella nervature della calotta absidale disposte tra le figure di Cristo Giudice, Maria e Giovanni, Pietro e Paolo: le figurette lì iniziano con gli Evangelisti, proseguono con busti di santi e si concludono con angeli, in un crescendo di santità perfettamente gotico. A proposito del male che infesta questo mondo nelle scene della Strage degli Innocenti, dell'Arresto di Gesù, della Salita al Calvario e della Crocifissione, le figure di uomini armati sono ricorrenti. E sono incredibilmente somiglianti ai soldati dipinti nel Palazzo Vescovile, in un'ala distrutta, pubblicati nella Rivista Archeologica del 1941: identici elmi, maglie di ferro, spade, simile la disposizione del gruppo. C'è sempre un soldato anziano con barba (nella Crocifissione è il Centurione) che porta un elmo della stessa foggia del soldato del Vescovado con le medesima picca.
Gli studiosi non comaschi hanno sempre trascurato questo confronto, mentre Vincenzo Barelli le definiva «pitture della stessa maniera e forse della stessa mano che dipinse il coro di Sant'Abondio » (1875), seguito da Liliana Balzaretti (1966).
Siccome il rinnovamento del palazzo vescovile, alzato di un piano, fu realizzato sotto il vescovo Bonifacio da Modena, andrebbe riconsiderata questa ipotesi, come mi suggerisce il prof.
Stefano Della Torre. L'impresa del Maestro di Sant'Abbondio ha infatti una datazione oscillante dentro la prima metà del '300, a seconda delle considerazioni stilistiche, di moda, e di cultura religiosa. Dal 1984 con Boskovits, che definisce il ciclo «isolato nella produzione pittorica lombarda» ma ammette di non conoscere «purtroppo » gli affreschi del Vescovado, si è fatta strada l'idea che il coinvolgimento emozionale tipico della religiosità francescana qui sia chiaramente presente grazie alla concomitanza del vescovo francescano Leone Lambertenghi con l'abbaziato di suo fratello Benno alla guida del monastero (Straffi 2003). Ritengo che il tema francescano della crocefissione nella sua dimensione di dolore sia espressa nell'intera disposizione del ciclo perché il tema del sacrificio è anticipato in tutte le scene dell'infanzia di Gesù, ma ciò non impone che il ciclo sia stato realizzato prima del 1325, data di morte del vescovo Leone, perché quella sensibilità si protrasse nei secoli seguenti. Se gli anni fino al 1335 escludono grandi imprese per la crisi economica del monastero e politica della città, dopo l'arrivo dei Visconti col vescovo Bonifacio da Modena (1340- 1352) che «fece erigere cinque chiese e una cappella, tre palazzi vescovili, un ospizio, un castello, una torre e un porto» (Guido Scaramellini 1990) non si può escludere il ciclo di Sant'Abbondio

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(b. fav.) C'è la mano di un artista sconosciuto sotto gli affreschi di Sant'Abbondio. È l'eccezionale scoperta realizzata sulla scia dei restauri in corso in questi mesi sull'arco trionfale e sulla prima crociera presbiteriale del capolavoro romanico. I lavori, voluti e finanziati dalla Famiglia Comasca, non stanno solo restituendo un po' del perduto splendore ai decori trecenteschi attribuiti al Maestro di Sant'Abbondio, ma stanno anche regalando ai restauratori - gli studenti dell'Accademia di Belle arti «Aldo Galli», che operano sotto la supervisione di Vanda Franceschetti e Rossella Bernasconi - l'emozione di vedere riaffiorare sotto gli strati di scialbo e di intonaco uno strato di decorazione più antico, che riprende il motivo ornamentale già noto delle "palmette" che seguono in maniera ritmica e continuativa - una di fronte e le altre due di profilo - anche sulla navata.
«Ce ne siamo resi conto quando siamo saliti sul ponteggio e abbiamo avuto la possibilità di guardare da vicino gli affreschi - spiega Vanda Franceschetti - In corrispondenza dell'arco trionfale sono rilevabili due strati pittorici successivi. L'Annunciazione, di cui si sono conservati alcuni frammenti, è il più recente, sotto se ne trova uno precedente che riprende la decorazione pittorica a palmette che corre lungo la cimasa della navata».
Si tratta di una decorazione di eccezionale brillantezza, anche se poco visibile prima dell'intervento, e che presenta una particolarità: le analisi effettuate da Luigi Soroldoni hanno rivelato la presenza di cinabro, un colore molto prezioso e poco presente nella tavolozza degli affreschi, utilizzato più che altro per i dipinti a cavalletto. Molto preziosa è anche l'azzurrite, di cui sono stati portarti alla luce alcuni frammenti sulla volta. Più comune negli affreschi dell'epoca è un altro pigmento rilevato in laboratorio, che conferirebbe allo strato da poco scoperto un particolare tono tendente al blu: «Si tratta del nero vite, un colore che ha una tonalità bluastra, piuttosto fredda, conferita dai tannini presenti nella vite con cui viene realizzato. Si sono conservate anche delle velature straordinarie in azzurrite sopra alcuni fiori sull'arco della prima campata». Lo strato di pittura più antico - «Potremmo datarlo 50 anni prima di quello già noto, ma è una supposizione al momento del tutto ipotetica», dice la professoressa Franceschetti - si è rivelato, dopo le operazioni di pulitura di ritocchi opachi successivi, di un colore vivacissimo. «Putroppo - continua la curatrice - la superficie è letteralmente massacrata dall'intervento di restauro effettuato negli anni Trenta dal Pelliccioli.
Probabilmente il restauratore operava con pochissima luce e con strumenti rudimentali: si nota un vero accanimento sull'intonaco con un attrezzo metallico, evidentemente manovrato con mano molto pesante per riuscire a danneggiare in quel modo una pellicola pittorica molto solida». Se le analisi chimiche del più antico strato di pittura sono in corso - e potrebbero essere approfondite da una convenzione con il Dipartimento del Beni culturali dell'Università dell'Insubria - tutto da studiare è ancora l'aspetto artistico: chi e quando ha affrescato per la prima volta la basilica di Sant'Abbondio? E cosa raffigurava l'intera decorazione?
«Per ora gli storici dell'arte non sanno bene come esprimersi - conclude la professoressa Franceschetti - Con l'architetto Daniele Rancilio della Sovrintendenza alle Belle Arti stiamo tentando una lettura omogenea dei risultati del nostro lavoro».

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