Caso Rumi, sette omicidi
ma la giustizia si arrende

Nell’aula sventola la bandiera bianca, e nasconde alla vista l’irrinunciabile motto: la giustizia è uguale per tutti. A quasi tre anni dalla condanna in primo grado di Angelo Rumi, riconosciuto colpevole di sette omicidi colposi dal giudice di Como, quel motto però stride con il desiderio di verità e di giustizia dei parenti dei sette pazienti deceduti

COMO Nell’aula sventola la bandiera bianca, e nasconde alla vista l’irrinunciabile motto: la giustizia è uguale per tutti. A quasi tre anni dalla condanna in primo grado di Angelo Rumi, riconosciuto colpevole di sette omicidi colposi dal giudice di Como, quel motto però stride con il desiderio di verità e di giustizia dei parenti di Adriano Manfredi, morto all’età di 69 anni tra sanguinamenti e peritoniti, di Maria Alvaro, morta a 49 anni per la necrosi del fegato, di Rosa Giudici, morta nell’aprile del 2000 dopo quattro interventi chirurgici in pochi giorni, di Danilo Provenzi, morto a 80 anni per le gravi conseguenze dovute all’operazione cui era stato sottoposto, di Fulvio Barbaro, morto a 43 anni ormai deperito e con gravi infezioni, di Bruna Scaglia, morta a 76 anni per via delle infezioni causate dai punti di sutura saltati, e di Francesco Scarpino, morto nell’agosto del 2000  tra peritoniti ed emorragie. Sette omicidi colposi costati tre anni fa una condanna a cinque anni e quattro mesi di carcere. Condanna che i tempi di un iter processuale al rallentatore hanno cancellato. Tutto prescritto. Nessuno pagherà (penalmente) nulla per quelle morti sospette in corsia, che a cavallo tra la fine degli anni Novanta e il 2000 avevano gettato nel caos l’ospedale Sant’Anna. Travolto da uno scandalo giudiziario da cui ha faticato a rialzarsi.
Il tribunale d’Appello di Milano, a quasi tre anni dalla sentenza di primo grado, non ha ancora fissato la data del processo di secondo grado chiesto da Angelo Rumi per poter ribaltare le conclusioni del giudice di Como. E questo, unito a un’inchiesta tribolata per colpa dei ritardi collezionati da ben due collegi peritali nominati nel corso delle indagini preliminari, ha di fatto dato un colpo di spugna definitivo alle speranze di una sentenza chiara e definitiva sui sette pazienti morti in corsia dopo ripetuti interventi chirurgici da parte dell’allora primario di Chirurgia A, il comasco con casa a Pavia Angelo Rumi.
Quando il fascicolo tornerà in un’aula di giustizia, dunque, la corte potrà dichiarare l’estinzione dei reati per avvenuta prescrizione. Che, codice alla mano, non significa assoluzione. In effetti i magistrati, se dagli atti ritengono esserci elementi che possano dimostrare l’innocenza dell’imputato, avrebbero l’obbligo di assolverlo. Altrimenti, senza quegli elementi, dichiareranno prescritto il caso. Sempre che non sia lo stesso Rumi a chiedere espressamente di rinunciare ai termini di legge che portano all’estinzione dei reati per poter protestare la propria innocenza.
Anche se di fatto (salvo l’improbabile rinuncia di Rumi al proscioglimento per prescrizione) la conclusione inevitabile sarà la cancellazione della condanna e della pena comminata in primo grado all’ex primario, la distinzione tra prescrizione e assoluzione non è puramente accademica. In ballo, infatti, vi è una querelle da un milione e mezzo di euro tra l’attuale dirigenza del Sant’Anna (che ha ereditato una patata bollente non sua e di cui avrebbe sicuramente fatto volentieri a meno) e il suo dipendente. In caso di comprovata innocenza, Rumi avrebbe infatti diritto a incassare il 50% dello stipendio di ben 5 anni trattenuto dall’ospedale per via della sospensione cautelativa dal servizio (che, contributi inclusi, ammonta a mezzo milione di euro) e a vedersi rimborsate (contratto del lavoro alla mano) tutte le spese legali sostenute (e stimate in poco più di un milione di euro).
Ora che i reati sono tutti prescritti il rischio è che tra il Sant’Anna e l’ex primario possa nascere un interminabile contenzioso. I vertici dell’ospedale, che da tempo hanno chiesto un parere legale in materia, sono sicuri che la prescrizione non sia un’assoluzione e che quindi, soprattutto alla luce di una sentenza di condanna di primo grado, al chirurgo non sia dovuto nulla. Non solo: il direttore generale Andrea Mentasti, il cui arrivo a Como ha coinciso con un netto cambio di rotta sul caso Rumi da parte del Sant’Anna, ha dato mandato ai legali di accertare la possibilità di rivalersi sullo stesso chirurgo pavese per chiedere indietro il 50% di stipendio versato nei 5 anni di sospensione cautelativa.
Nel frattempo Rumi, sempre assente per malattia, fino a novembre continuerà a ricevere lo stipendio per un incarico mai ricoperto in quel di Mariano Comense. Tra un paio di mesi, però, o si presenterà in ufficio oppure perderà il posto di lavoro.
Paolo Moretti

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