Gli angeli di Ponte Chiasso
Salvarono centinaia di ebrei

La storia di Giuseppina, del marito e di due coraggiosi finanzieri

Ci sono storie che ti passano accanto, che sfiori con le dita, ma di cui non ti accorgi. Non le vedi per mille motivi: perché non te le aspetti, perché le parti in causa non vogliono farle conoscere, oppure perché semplicemente non le conosci. Capita così che la polvere del tempo si depositi sopra, coprendo i ricordi, nascondendo le tracce, facendo calare il silenzio. Un oblio che rimane almeno fin quando una mano, magari accidentalmente, passa sopra a quella polvere e la solleva, la sposta, riporta alla luce ciò che era rimasto sepolto a lungo.

Quella “mano” opportuna è arrivata dalla Sicilia, dalla città di Caltanissetta, da una strada che nella Giornata della Memoria, grazie all’impegno del Comune dell’isola e dell’associazione “Onde Donneinmovimento”, è stata dedicata a Giuseppina Panzica.

Una storia dimenticata

Giuseppina era sì nata a Caltanissetta, ma a Como era emigrata con il marito Salvatore Luca, militare in congedo della Guardia di Finanza. Vivevano a Ponte Chiasso, al civico 1 di via Vela. Lui faceva il calzolaio. La casa, con un piccolo orto, dava sul retro, proprio sulla rete di confine che divide l’Italia dalla Svizzera. E da quella rete, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, passarono – di nascosto e di notte – centinaia di ebrei, ma anche profughi e perseguitati politici che per quel varco ottenevano la salvezza.

Giuseppina, madre di quattro figli, non fece tutto da sola ma collaborò con il finanziere Gavino Tolis e con il maresciallo Paolo Boetti , suo superiore diretto, nel nascondere e salvare centinaia di ebrei e perseguitati aiutandoli a fuggire nella vicina Svizzera. Tolis prestava servizio alla frontiera di Ponte Chiasso ed era entrato in contatto con la famiglia Luca già dal settembre ’43. La rete di confine italo-svizzero passava proprio dall’orto della famiglia di origine siciliana, nascosta dalla strada che correva dietro allo stabile. Tra loro e la salvezza solo una maglia metallica, poi la Svizzera.

Il marito di Giuseppina tuttavia era finito nel mirino dei fascisti per la sua condotta. Calzolaio e finanziere in congedo, nei giorni successivi alla caduta del fascismo (era l’estate del 1943) aveva collaborato all’abbattimento degli emblemi del regime sulla Casa del Lavoro di via Bellinzona. Era tenuto d’occhio, il signor Luca.

La storia non finì bene per tutti. Qualcuno fece la spia, rivelando quello che di notte avveniva nel retro della casa della famiglia. Mentre il marito era all’estero per lavoro (in Germania, dove venne poi arrestato e a sua volta internato), Giuseppina venne fermata dalla Gestapo, assieme ai finanzieri Boetti e Tolis. Passò qualche notte al carcere di San Donnino a Como, poi venne portata a San Vittore e infine deportata prima a Bolzano poi al campo di sterminio di Ravensbruck. Riuscì però a tornare, viva, alla fine della guerra e a ricongiungersi con il marito pure lui scampato agli orrori dei campi di concentramento. Non ce la fece invece il finanziere Tolis, morto a Mauthausen.

La medaglia di Mattarella

I due militari vennero insigniti della Medaglia d’Oro per il merito Civile. Il 14 marzo del 2018 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella diede il primo colpo di mano alla polvere su questa storia tutta comasca, attribuendo pure a Giuseppina Panzica – madre di quattro figli, che con il suo coraggio contribuì a salvare centinaia di ebrei e perseguitati politici – la Medaglia d’Oro al Merito Civile.

Il secondo colpo di mano alla polvere è stato dato dal libro “Sopravvissuta a Ravensbruck. Giuseppina Panzica, la mamma che salvò gli ebrei” (Il Pozzo di Giacobbe, 2021) scritto dal giornalista Vincenzo Grienti e dal colonnello Gerardo Severino, direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza.

Ma a Como, in questi lunghi anni, di Giuseppina e del suo coraggio si è parlato troppo poco. Ci fu una candidatura all’Abbondino d’Oro, che rimase tale, poi poco altro. E la polvere aveva già ricominciato a depositarsi sul suo nome. Almeno fino a giovedì, quando in Sicilia – a Caltanissetta – il nome è tornato a risuonare, dall’alto di una via a lei dedicata.

Ora tocca alla città di Como fare il suo, per ricordare una donna che scelse la nostra provincia per vivere, crescere la famiglia, imprimere il proprio nome della storia e poi morire all’età di 70 anni. Lasciando un segno indelebile in chi in quegli anni visse nel quartiere di Ponte Chiasso, affacciato sulla Svizzera. Proprio come la casa della famiglia Luca, con quell’orto e quella rete metallica da oltrepassare, di notte, in cerca della luce. Nascosti dagli occhi di chi invece aveva colorato il mondo con le tinte cupe della morte.

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