Lo chef della ville lumiére
che cucina per i senzatetto

SPECIALE DIOGENE - Gianpaolo Collu, 67 anni, originario di Moltrasio: «Anch’io ho vissuto in mezzo a una strada. Dormivo sui treni»

(Articolo pubblicato su Diogene, in edicola tutti i martedì con la Provincia)

Ha il tono pacato di chi ne ha viste, vissute e sentite così tante da non stupirsi più così facilmente, Gianpaolo. Professore, dirigente d’azienda, cameriere, aiuto cuoco, chef, viaggiatore, clochard e ora volontario nella mensa diurna per i poveri della Caritas.

Nome sardo, ma origini comasche, Gianpaolo Collu sorseggia un caffè con la stessa calma con cui parla, mentre apre il libro della sua vita. Che, negli ultimi anni, ha riservato i capitoli più duri: il ritorno a Como dalla Francia, la crisi, le notti trascorse in mezzo a una strada («quando mi andava bene riuscivo a salire su un treno fermo alla stazione San Giovanni») e il riscatto, ottenuto - e non è un paradosso - aiutando chi aveva più bisogno.

L’adolescenza in città

Il secolo scorso aveva appena virato verso la seconda metà: «Sono nato a Motrasio. Mio papà era un finanziere, lavorava nella polizia tributaria a Como. Mia mamma era impiegata alle Poste centrali. E i miei primi quattro anni li ho passati a Gera Lario da mia nonna». Padre sardo, venuto a Como tra le due guerre, madre di Canobbio, l’adolescenza Gianpaolo la trascorre a Como: «Abitavamo in via Sant’Abbondio, prima, poi quando costruirono i nuovi palazzi ci siamo trasferiti in viale Masia. Le elementari le ho fatte al collegio Santa Chiara, che era in via Milano. Ricordo ancora il nome della mia maestra: suor Fides. È stata lei a dirmi che Babbo Natale non esiste. Ma non l’ha fatto per motivi di fede, quanto piuttosto perché non le piaceva dire bugie». Sorride sotto quei baffi bianchi, leggermente ingialliti dal vizio del fumo, mentre snocciola ricordi e date e racconta degli studi al liceo classico del collegio Gallio. Saranno gli ultimi cinque anni comaschi, prima di un lungo esilio volontario: prima a Roma, per laurearsi in lettere moderne, quindi in Sardegna.

In Sardegna dopo la laurea

«A Cagliari, dopo la laurea, verso la fine degli anni Sessanta, ho trovato lavoro come professore. Insegnavo all’istituto Nautico. Ma ho resistito solo un anno e mezzo. Avevo un modo di insegnare che non piaceva al rettore: per me il voto era secondario, per lui no. E così abbiamo litigato e me ne sono andato». È solo la prima delle numerose virate nella rotta esistenziale di Gianpaolo. Il fondo del caffè nella tazzina appoggiata sul tavolino fa da sfondo al fascino della navigazione di quest’uomo il cui volto avrebbe fatto innamorare Van Gogh o Cezanne: «Dopo l’insegnamento ho trovato lavoro alla Rumianca, un’industria petrolchimica di Cagliari. Tenevo i rapporti con le altre ditte con cui avevamo gli appalti». Per quasi una decina di anni Gianpaolo resiste: «Poi iniziarono le prime inchieste, i primi scandali e a quel punto decisi che per me era abbastanza. E che era il momento di andarmene dall’Italia». Scelse la Francia: «Mio padre diceva che i francesi sono vecchi. Forse un po’ aveva ragione» dice allargando le labbra in un sorriso sincero. «Arrivai a Parigi nel 1979» dice, e mentre parla ti fissa con quei suoi occhi che sono una tavolozza di colori misti: verde e grigio e azzurro.

Chef in Francia

«Arrivato in Francia avevo un solo obiettivo: non fare le cose che non volevo fare neppure in Italia. Ricordo che nei primi giorni parigini passai da Montparnasse» il quartiere che, in passato, era stato il punto di riferimento di artisti e pittori e di locali dove potevi trovare a bere scrittori del calibro di Fitzgerald ed Hemingway. «Vidi una pizzeria italiana: il ristorante Amelia. Cercavano un aiuto cuoco. A me era sempre piaciuto cucinare e mi sono detto: “Perché non provare?”». Ed è così che ha inizio la carriera di chef. «Ho girato molti locali, in quegli anni. Sono stato a Pigalle poi per otto anni ho lavorato come cuoco a La Campagnola, un ristorante gestito da un romano che faceva cucina italiana casalinga». Nel frattempo, per riempire il resto della giornata, «insegnavo italiano alla delegazione del Quebec in Francia». Ma alla lunga «Parigi stanca, se ci vivi». Sembra impossibile crederlo, ma Gianpaolo non ha dubbi. «Dopo vent’anni ho detto basta e mi sono trasferito nella zona del Pas de Calais» sopra la Normandia, poco distante dalla spiaggia di Dunkirk. «Un bel posto dove stare. Ho fatto il cuoco in un piccolo ristorante, l’Italian, per 13 o 14 anni». È qui che Gianpaolo comincia anche ad occuparsi di poveri: «Ho iniziato a fare il volontario con il prete del paese. Cucinavo per il “Restos du coeur”» una rete di associazioni impegnate a preparare cibo per i poveri». Poi il proprietario dell’Italina ha avuto problemi di salute, ha chiuso, e Gianpaolo - sei o sette anni fa - è tornato in Italia.

Il ritorno a Como

«Così mi sono ritrovato a Como. Avevo un po’ di soldi in tasca, ma li ho finiti molto presto. E così ad un certo punto mi sono ritrovato a dover vivere per strada». Siamo nel 2014. «L’ho presa come un’avventura, come tutto il resto della mia vita. Certo, un’avventura affatto semplice. Ma, dopotutto, amavo i poeti maledetti alla Boudelaire e mi sentivo un po’ parte delle loro opere». Per circa otto mesi Gianpaolo dorme per strada: «A volte sui treni a San Giovanni. I poliziotti chiudevano un occhio».

La svolta avviene in via Sirtori, al dormitorio: «Ho conosciuto Paola Della Casa (della rete servizi per la grande marginalità ndr) e ho iniziato a darle qualche lezione di francese. Poi, quando ha chiuso il dormitorio, mi hanno proposto: perché non vieni a lavorare con i ragazzi? Così ho iniziato a lavorare come operatore per Simploké» la cooperativa della Caritas. Qualche anno dopo è arrivata la pensione. «Sono tornato a fare il cuoco, questa volta come volontario: cucino per una settantina di persone ogni giorno, ma ci sono stati giorni in cui siamo arrivati anche a 92 pasti. La povertà a Como c’è. E si sente». E il futuro di Gianpaolo? «Qui, dietro i fornelli. A preparare i pasti per la mensa tutti i giorni. Tutti tranne il lunedì».

Paolo Moretti

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