“Lezione” di Servillo all’Arena
Capire Modugno sotto le stelle

Quanti conoscono il testo di “Nel blu dipinto di blu”, a parte il celebre ritornello? Con bravura e ironia il musicista ha svelato al pubblico di Como i segreti di un autore ancora amatissimo

È un’opinione diffusa che la seconda strofa di “Nel blu dipinto di blu” abbia versi ancora più belli della prima: «Ma tutti i sogni nell’alba svaniscon perché quando tramonta la luna li porta con sé, ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli che sono blu come un cielo trapunto di stelle».

Eppure una maggioranza di italiani che non sa resistere quando c’è da squarciare l’aria strillando il ritornello, questa seconda parte proprio non se la ricorda. Non bastasse questo a sottolineare quanto la musica, la canzone contino realmente nella nostra cultura, quelle liriche di Franco Migliacci, tanto cantate, in fondo in fondo, pochi le hanno davvero capite.

Lo ha sottolineato bonariamente Peppe Servillo venerdì sera, correggendo il pubblico dal palco dell’Arena del Teatro Sociale. Fronteggiava i suoi Uomini in Frac, da molti anni impegnati nella valorizzazione e nell’interpretazione in chiave jazzistica del repertorio di Domenico Modugno. E se in scaletta trovano luogo perle raramente ripescate anche dai cultori come “Lu minaturi”, non ci si poteva esimere dall’invitare tutti a cantare “Volare”: sarebbe stato un atto di crudeltà ingiusta, oltre che una lotta inutile perché è più forte di noi. Appena sentiamo “...e cominciavo a volare in un cielo infinito” prendiamo tutto il fiato e ci apprestiamo a compiere quell’ineludibile cerimonia canora.

Forse è per quello che, dopo, restiamo distratti nella seconda strofa, manco fosse la pubblicità, in attesa di “Volare, oh oh” ancora un po’, “nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù”. Sì, ma attenzione: “lassù” solo la prima volta. La seconda dice “quaggiù”, «Altrimenti vorrebbe dire che entrambi sono morti – sogghigna Servillo – Mentre lui vuole stare ben vivo, con lei, quaggiù».

Verissimo. Ha ragione: manco i fondamentali. Perché è facile, più di sessant’anni dopo quel fatidico Sanremo, liquidare Modugno con una frase fatta («Il padre della canzone d’autore») e passare oltre. Invece fu autore di melodie che resistono a tutto, anche all’incursione del sax di Javier Girotto e della tromba di Fabrizio Bosso, alle carezze del pianoforte di Rita Marcotulli, all’incalzare della sezione ritmica di Furio Di Castri e Mattia Barbieri, rispettivamente basso e batteria.

E fu poeta e cantore di poeti, come Servillo interpreta, con un gesto teatrale che accompagna una voce, a suo dire, inadeguata, in realtà perfetta per sottolineare quanto possa essere amara l’“Amara terra mia”, quanto possa essere leggiadra “Lazzarella” che fa la grande “vicino â scola d’‘o Gesù”, quanto sia umida quella “Strada ‘nfosa” dove dirsi addio, quanto sia vero, in barba ai censori del tempo, che “Nun ‘me ‘mporta do passato, nun ‘me ‘mporta ‘e chi t’ha avuto”. Tre emozioni su tutte: “Vecchio frac” per pianoforte, voce e atto; “Cosa sono le nuvole”, turbinante omaggio a Pasolini, e “Lu pisce spada”, con il solo Girotto alle percussioni e Servillo impegnato a vivere quella che è, sì, “storia d’ammuri”, ma anche di morte. Applausi mai così meritati.

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