Svolta green delle imprese, mancano figure tecniche

L’intervista Alessandra Vischi, docente alla Cattolica, analizza le risorse e i processi necessari alla transizione ecologica. «Si cercano laureati, profili che vengono inseriti soprattutto nelle aree delle risorse umane e della comunicazione»

Le piccole e medie imprese non hanno l’obbligo di certificazione ambientale, ma la Csrd-Corporate sustainability directive dell’Unione europea del 2022 di fatto le obbliga se vogliono rimanere sul mercato, in quanto fanno parte di filiere che comprendono le grandi imprese e le pmi quotate alle quali, come fornitori, rispondono.

Ne parliamo con Alessandra Vischi, responsabile scientifico Area alta formazione dell’Università Cattolica.

Professoressa, le pmi stanno investendo in transizione ecologica?

Sì. Secondo un sondaggio svolto nell’estate 2023 da Eurochambres sul tema dell’accesso alla finanza sostenibile da parte delle pmi, dalle risposte arrivate da 2mila imprese di 25 Paesi europei è emerso che il 60% delle pmi intervistate ha dichiarato che sta investendo nella transizione ecologica. È un dato molto importante, anche perché rispetto a un’altra survey comunicata dalla Commissione europea nel 2021 il nuovo dato segna un incremento del 35%, un balzo significativo in circa un anno e mezzo. Di fronte a tale propensione nel portare avanti la transizione ecologica però solo il 12% ha dichiarato di produrre un report di sostenibilità in modo volontario, data, appunto, l’assenza di obbligo. In tal senso, rispetto alla Csrd del 2022 le pmi sono chiamate di fatto a produrre una comunicazione.

Complessivamente il segmento delle pmi ha un peso rilevante nella realizzazione degli obiettivi ambientali?

L’Europa anche attraverso l’Efrag (European Financial Reporting Advisory) che fissa gli standard di rendicontazione in tema di ambiente, sociale e governaance (Esg) sottolinea che le pmi rappresentano una dimensione importantissima per la realizzazione della sostenibilità.

Per tale motivo è stata fatta una consultazione terminata il 21 maggio, durata quattro mesi, che dà indicazioni sulle rendicontazione da parte delle pmi: si tratta dei Vsme (Voluntary Sustainability Reporting for Smes) che servono ad aiutare le pmi nel produrre un report volontario nel rispetto degli standard di sostenibilità.

Qual è l’obiettivo?

L’obiettivo è quello di far sì che ci sia meno burocrazia e più attenzione ad aspetti importanti della sostenibilità. L’idea è di non appesantire le pmi che in tal senso sono molto preoccupate in quanto non hanno la struttura, e per certi versi anche la cultura e, soprattutto, la possibilità di sostenere i costi elevati della transizione ecologica. Il Csrd è stata una spinta importantissima per la transizione ecologica delle pmi, in un cambiamento in atto anche in Italia.

Un cambiamento lento?

Anche le pmi devono fare un cambiamento culturale sulla sostenibilità ambientale, cosa che non avviene in tempi rapidi. In Italia il “Forum per la finanza sostenibile” dal 2020 produce una survey specifica su pmi e sostenibilità: l’ultimo report, del 2023, ci dice che il 56% delle pmi intervistate ritiene che i temi Esg siano molto importanti (nel 2020 la percentuale era del 27%) da considerare nelle scelte strategiche di investimento e il 17% delle pmi italiane (contro il 12% del dato medio europeo) ha inserito l’Esg nella propria strategia aziendale. Il cambiamento c’è, senza dubbio.

Al netto della convenienza per poter operare nelle filiere che, al di là delle imposizioni normative, chiedono le certificazioni, ci sono altri motivi per cui è meglio che le piccole e medie imprese si adeguino alle nuove regole?

I criteri di transizione ecologica sono sicuramente importanti per le pmi anche perché permettono di contenere i rischi rispetto all’ambiente e al territorio e di migliorare il legame col territorio ma anche coi dipendenti, oltre che di ottimizzare i processi produttivi. Così come, aspetto non secondario, consentono di valorizzare la propria immagine aziendale. Si sta dunque seguendo la via della responsabilità sociale d’impresa che include i temi di fiducia e trasparenza, in più si potenziano e si individuano strade concrete per realizzare la sostenibilità.

Ciò aiuta anche il rapporto con le banche?

Sì, favorisce l’accesso al credito. Le aziende che rispondono a criteri ambientali hanno più possibilità di ottenere finanziamenti bancari tanto che sempre di più, e lo vediamo anche in ambito formativo, ci vengono richieste competenze di sostenibilità. Quindi le pmi non hanno formalmente obblighi ma sono pienamente coinvolte nel rispetto degli standard di transizione ambientale.

E ciò riguarda un cambiamento anche nella gestione delle risorse umane?

Certamente, la transizione investe tante aree e soprattutto le persone. Le pmi iniziano a sentire la necessità di green jobs: una ricerca di Unioncamere ci dice che nelle imprese italiane manca il 52,6% di green jobs che, come ci spiega Fondazione Symbola, dove ci sono sono sempre più inserite in posizioni strategiche. Se fino a qualche anno fa erano tecnici, di livello soprattutto medio e titolo di studio di scuola secondaria superiore, oggi si cercano per le competenze green soprattutto laureati e, ancor più, con master o corsi di approfondimento.

In che aree aziendali sono perlopiù inseriti?

Sono profili che sempre più vengono inseriti nelle aree delle risorse umane, della comunicazione, del marketing, della logistica: settori strategici che ne sentono il bisogno. Le piccole e medie imprese non hanno al loro interno una struttura in grado di provvedere alla formazione e perciò collaborano sempre più con realtà esterne, fra cui le università per rendere green le competenze del personale. Posto che le pmi hanno già una cultura d’impresa, queste nuove esigenze e competenze aiutano a rileggerla e a ridefinirla: sono valori da condividere nell’impresa, in quanto se rimangono solo belle parole o certificazioni imposte dall’alto non si raggiunge l’obiettivo del cambiamento. Quindi la sostenibilità si realizza solo se diventa un progetto di tutta l’impresa.

Tutto ciò rende un’azienda più attrattiva per i giovani?

Chi si occupa di risorse umane nelle imprese deve essere responsabile, sostenibile e inclusivo. Con competenze legate alla progettazione, alla capacità di creare rete sul territorio ma soprattutto con capacità di creare comunità in un’organizzazione. Le giovani generazioni sono portate a cambiare posto di lavoro anche senza avere un’alternativa pur di trovare un contesto lavorativo che, fra l’altro, abbia un sentire etico forte, dichiarato e agito.

Come deve essere la comunicazione per la sostenibilità?

Deve essere rivolta a tutti: stakeholder interni ed esterni. All’interno, per i dipendenti, si traduce nella comunicazione sui temi di responsabilità sociale e welfare. All’esterno riguarda invece l’idea di comunicare l’impegno delle pmi nell’essere sostenibili in senso ambientale e anche sociale attraverso i canali standard, a cui consumatori e cittadini sono particolarmente attenti. Ma anche una comunicazione generata dalle attività realizzate dalle pmi sul territorio, attraverso progetti anche piccoli ma che testimonino un impegno concreto. La chiave di volta è rendere la cultura d’impresa volta alla sostenibilità e condivisa: un codice etico va realizzato con le persone attraverso il loro sentire.

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