A nessuno importa più
del martirio in Ucraina

C’è un momento - un momento squallido, fangoso, inesorabile - che da che mondo è mondo segna la “morte” di una notizia.

Non arriva subito, bisogna attendere con pazienza che tutte le cose vadano al loro posto, tutte le caselle si sistemino, tutte le emozioni che pervadono le profondità dell’animo umano facciano il loro corso. E più la notizia è grande, clamorosa ed eclatante, più sembra sconvolgere fin nelle fondamenta la nostra esistenza, il nostro modo di vivere, il nostro stare al mondo, insomma, più quella notizia è storica più il momento tarda ad arrivare. Ma statene certi, prima o poi, all’improvviso, nel salotto delle case, alla macchinetta del caffè, nei tavolini dei bar - e nelle redazioni dei giornali - qualcuno dirà la verità che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di confessare: ancora le torri gemelle? ancora la Lehman Brothers? ancora il Covid? ancora l’Ucraina? uff, che palle…

Ecco, ci siamo. Anche questa volta siamo arrivati al punto, al punto di non ritorno dopo il quale la sorte di quella storica notizia che avrebbe cambiato per sempre - ne eravamo così certi… - i destini del mondo, torna ad essere quello che è, quello che è sempre stata e quello che sarà in futuro. Un mero accidente nella vita quotidiana di tutti, un’increspatura, una scocciatura, un banale dato di cronaca tra i mille sfornati ogni giorno, un sottofondo molesto allo scorrere tedioso del tempo. Basta dare un’occhiata al sistema dei media per cogliere quanto questo passo sia ormai compiuto. La chilometrica diretta televisiva di Mentana sulla crisi ucraina, arrivata alla soglia dei cento giorni, ha chiuso i battenti, i reportage degli inviati speciali sono stati ridotti al minimo, i talk show sono tornati tristemente, dopo settimane di eroica retorica bellicista e di altrettanto eroica retorica antibellicista, a grufolare tra le miserie della nostra microscopica, cenciosa, dilettantesca classe politica che, annusato l’odore delle elezioni dell’anno prossimo, sta dando il meglio di sé, il conflitto si è rimpicciolito nelle prime pagine dei giornali, nelle home page dei siti e nelle interazioni sui social. Diciamoci la verità, la faccenda ha stufato.

E infatti sono contestualmente partite le denunce, di solito a firma di brillanti intellettuali impegnati, di quanto questo sia disdicevole e inaccettabile, segno della decadenza di tempi, della scarsa dirittura morale di noi cittadini troppo impigriti dal benessere per difendere i nostri valori - infatti ci interessa moltissimo del gas, della benzina e dell’inflazione, pochissimo della democrazia, della libertà e della tolleranza - ed è proprio qui che si coglie tutto il declino dell’occidente e quindi, mai come ora, è prioritario risvegliare le coscienze e bla bla bla.

Ora, non c’è dubbio alcuno che sia così. Ed è triste, davvero triste, che sia così. Ma questo approccio così messianico, così moralistico, così ideologico, tipico dell’intellettuale à la page, poggia su una visione dell’uomo del tutto astratta. Gli esseri umani non sono quello che pensiamo, non sono quello che ci immaginiamo. Noi, se li conoscessimo bene, avremmo capito da tempo che non bisogna mai aspettarsi troppo da loro - troppo da noi - perché loro non sono in grado di sopportare a lungo tutto ciò che di male accade nel mondo. C’è troppa ingiustizia nella vita, troppo dolore, troppa violenza, troppa insensatezza, nessuno è in grado di farsene carico, di prendersi sulle spalle tutto lo strazio dell’universo, nessun essere umano può struggersi e dedicarsi e immolarsi ogni giorno, tutti i giorni, per una settimana, per un mese, per un anno sulla tragedia dell’Ucraina e le mille altre tragedie grandi o piccole che accompagnano il breve e malinconico passaggio degli uomini sulla terra. È un peso insopportabile, un peso intollerabile, un peso da uscirne schiantati. E allora, a un certo punto, è come se negli uomini scattasse un meccanismo di autodifesa, un codice genetico che gli fa distogliere la vista da quello che non sono in grado di capire e, soprattutto, di tollerare. E così loro si allontanano dal dolore, gli girano le spalle, chiudono gli occhi, voltano la testa. Alla fine loro - noi - si abituano. Ecco, loro si abituano - si abitua a tutto quel vigliacco che è l’uomo - e così dell’Ucraina e del suo martirio non gli importa più nulla. E’ il prezzo da pagare per poter sopravvivere.

E’ una cosa brutta? Lo è. E’ una cosa triste? Lo è. E’ una cosa umana? Lo è, assolutamente. E’ anche un modo per tirare avanti, per indossare una corazza, uno scudo, pensando solo a sé, solo a sé, solo a se stessi medesimi e al piccolo microcosmo che racchiude i loro pochi affetti e i loro ancora più sparuti interessi, in modo che la grande notizia li colpisce solo se gli finisce dritta sulla testa, se avevano un amico nelle torri gemelle, se hanno perso un familiare per il Covid, se un loro caro è finito a spasso per la crisi economica, insomma se la grande storia ha bussato alla loro porta di casa. Altrimenti non gliene interessa un bel niente.

Certo, sarebbe bello se gli esseri umani ponessero come bene supremo e assoluto e indissolubile la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà. E’ un ideale magnifico e abbagliante come un maggiociondolo in fiore, ma così difficilmente attuabile. Forse non siamo all’altezza, forse la libertà, la sua difesa a ogni costo, a costo della vita, anche se è in gioco a migliaia di chilometri da noi, è una cosa troppo alta, troppo nobile, troppo ambiziosa, troppo “disumana” per essere realistica. Forse resta solo un’aspirazione, e lo è soltanto in un piccolo e declinante angolo di mondo.

Gli uomini non cambiano. Gli uomini sono sempre gli stessi. Indifesi e impauriti e sballottati dai venti di una storia che li atterrisce, li sgomenta e li mette in fuga, proprio come gli sprovveduti filatori di Manzoni e gli ancora più sprovveduti pescatori di Verga. Ma almeno loro credevano nella Provvidenza. Noi, probabilmente, neppure in quella.

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