Assolto Spacey, condannati i moralisti

Arrivati a una certa età, la fuffa – soprattutto la fuffa ideologica - la si riconosce a un miglio di distanza. E quando accade è inutile scandalizzarsi. Basta avere un po’ di pazienza e aspettare che si schianti contro l’inesorabile potenza della realtà.

Con l’assoluzione al tribunale di Londra di Kevin Spacey da tutte le accuse di stupro e abusi sessuali nei confronti di quattro uomini, che segue l’altra assoluzione che l’autunno scorso aveva smontato le identiche accuse di un altro attore risalenti al 1986, si chiude una delle vicende più ignobili, intollerabili e, al contempo, pedagogiche degli ultimi anni. Una sentenza che probabilmente mette fine alla stagione del #metoo che, soprattutto in America ma con rivoli purulenti anche nel nostro paese, veleggiando sull’onda di un fanatismo femminista neopuritano ha distrutto la carriera di un attore formidabile, vincitore di due Oscar. Per non parlare di quanto già accaduto a Woody Allen, Luc Besson e Johnny Depp, giusto per fare alcuni esempi celebri.

Ma la cosa più grave non è la parte giudiziaria della vicenda. L’aspetto inaccettabile è come questa ridicola rivisitazione del giacobinismo dei sessi, questa grottesca riproposizione 4.0 della rivoluzione sessuale abbia creato un clima di caccia alle streghe nella quale sono saltati tutti i paletti, tutti i criteri, tutti i caposaldi di una sana cultura liberale. Che si basa in sostanza su una cosa sola, unica e adamantina. L’onere della prova. Non esiste, in un mondo normale che non sia schiavo dei soliti sospetti, che una persona quale che sia, l’attore notissimo o l’ultimo degli scappati di casa, venga condannato a mezzo stampa, tramite un vero e proprio linciaggio seriale, senza che esista una sola prova solida e reale. E nel caso di Spacey è andata proprio così. Nessun video, nessun messaggio, nessuna intercettazione, nessun testimone, nessuna carta documentale. Nessuna prova. Niente. Niente di niente. Solo la parola di una persona (“stupro”) contro la parola di un’altra persona (“rapporto consensuale”). Questo in una democrazia liberale significa che non c’è nulla. Nella repubblica delle banane del pensiero unico perbenista, invece, è una condanna a morte. E’ sufficiente che l’accusato sia uomo, bianco, di mezza età, potente, ricco e famoso per renderlo di per sé, “in sé”, un colpevole. Peggio, un predatore sessuale, un maschio tossico che nasconde dentro di sé un animale che si prende quello che vuole e schiaccia, stupra e ricatta i deboli, gli umiliati, gli offesi. Che invece, in questo caso, erano dei sordidi ricattatori, che avevano pensato di incastrarlo per estorcergli dei soldi. E questo è quanto.

E la cosa ancora più grave è che il cosiddetto movimento femminista, la cosiddetta rivoluzione permanente nel nome delle donne, invece di occuparsi delle molestie vere, delle sevizie vere, degli stupri veri, non ha fatto altro che esibire un bacchettonismo da macchietta dei padri pellegrini, contestando la vita sentimentale e sessuale promiscua dell’attore. E allora? Essere gay è un reato? Essere bisessuali è un reato? Essere un adultero è un reato? Vivere nel più totale disordine affettivo è un reato? Essere, come sosteneva l’accusa - e facciamo finta che sia vero - “viscido, disgustoso e spregevole” è un reato? Provarci con tutte e con tutti, con la prima o il primo che passa è un reato? Può essere avvilente, può essere degradante, può essere indegno - e per chi scrive questo pezzo lo è, tanto per essere chiari - ma non è di certo un reato. E poi, chi lo decide come ci si può comportare e come no? Il Tribunale della Verità? I Probiviri della Buoncostume? Le Sacerdotesse del Politicamente Corretto? Gli Ayatollah della Pubblica Morale Farisaica?

Qui ci siamo bevuti il cervello. Qui la gente beve. Tutti, soprattutto i politici, ma non solo, a farti la lezione su cosa devi fare e cosa non devi fare e a ciangottare su l’etica e la morale e la famiglia e la centralità della famiglia e le fondamenta della famiglia e il mio maritino e la mia mogliettina e poi li vedi in giro in branco, quelli che benpensano, tutti pluridivorziati e puttanieri e cubiste e ragazzine e ragazzini e nottate pasoliniane, che se uno avesse un minimo di decenza si dovrebbe sotterrare e non farsi più vedere per almeno due lustri invece di pontificare in televisione con il ditino alzato ogni giorno che il buon Dio manda in terra.

Certo che gli ambienti - tutti, ma in particolare quelli ad alto tasso di visibilità pubblica e sociale - sono popolati da predatori, ricattatori ed autentici mascalzoni. Certo che la storia del cinema è in larga parte basata sul celeberrimo istituto del “divano del produttore”. Certo che l’utilizzo del potere come arma di ricatto sessuale è una cosa che fa senso, una cosa che fa schifo, una cosa che fa vomitare. Però, se vogliamo esser onesti, visto che qui nessuno va più all’Asilo Mariuccia e nessuno è un ipocrita, bisogna ricordare che da sempre c’è un’ampia quota di persone che sul “divano del produttore” non vedono l’ora di sdraiarsi - e su questa scelta ignobile Marylin Monroe, che ha sperimentato sulla sua pelle tutte le fasi più luride della gavetta, ha detto parole ciniche e definitive - perché sanno perfettamente che quella è la prima scorciatoia per fare carriera. E questo vale pure per il teatro, la televisione, la politica - e il giornalismo - e anche questa è una cosa che fa senso, una cosa che fa schifo, una cosa che fa vomitare. O no?

Ma se è così, ed è così, se di questo fango sono fatti gli uomini - e le donne - è anche vero che in ogni angolo della società, anche nel più infimo, germogliano e vivono esseri umani puliti e cristallini, che valgono solo per quello che sono. E che sanno bene che la vita è una grande battaglia quotidiana, piena di infamie e di zone grigie, che si combatte con coerenza e dignità, diffidando sempre degli invasati, dei catoni, dei robespierre e, soprattutto, dei moralisti. Perché non esistono moralisti onesti.

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