Comune-Ats: quel fossato
che li separa dai cittadini

«S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche». E fu così che Maria Antonietta si giocò la testa. Ma quella frase, «se il popolo non ha più pane, che mangi brioche», prima ancora che la causa della condanna a morte dell’ultima regina della Francia pre rivoluzione, è l’emblema del baratro che esisteva tra i palazzi del potere e il resto del mondo in quegli anni di “nobiltà”. Un baratro che, 231 anni dopo, incredibilmente ancora non è stato colmato. Certo, oggi non tocchiamo i livelli di Maria Antonietta (e ci mancherebbe altro), né ambiamo a soluzioni così drastiche e drammatiche di fronte al problema della scollatura tra “palco e realtà”, ma ugualmente in certi palazzi si respira un clima tipo: “Io sono io e voi…”.

Una rilettura delle cronache locali degli ultimi cinque mesi offre un quadro sconfortante, ma lampante, del fossato che almeno un paio di istituzioni ipoteticamente pubbliche (perché vivono grazie ai soldi pubblici, maneggiano i soldi pubblici e perché le nomine in uno di quei palazzi e le elezioni nell’altro sono fatti assolutamente pubblici) hanno scavato attorno a sé. Per di più sollevando con disprezzo (verso i comuni mortali) il ponte levatoio del buon senso e del confronto. Le due istituzioni in questione sono: Palazzo Cernezzi, casa del Comune di Como (anche se quel senso di comunità non è percepito dagli attuali inquilini) e l’Ats Insubria (sede legale via Ottorino Rossi, Varese… in questo caso oltre al fossato ci hanno aggiunto pure la distanza).

Il caso del Comune è fin troppo noto. Il «lavoriamo in silenzio» made in Landriscina potrebbe essere utilizzato come motto nel vessillo dell’attuale amministrazione, alle prese da un lato con spaccature e liti al proprio interno (che poi si traducono in perfette spartizioni di poltrone alla “Cencelli style”) che dimostrano come manchi pure il senso della realtà di fronte ai reali problemi di una città impantanata, dall’altro con l’esigenza di non far sapere ai comaschi come stiano veramente le cose. E così atti pubblici vengono pubblicati sull’albo pretorio (pubblicazione obbligatoria per legge) con settimane di ritardo, richieste di chiarimenti vengono negate, informazioni di interesse collettivo non vengono fornite. E di fronte allo sfacelo, anziché cospargersi la testa di cenere e chiedere scusa (errare è umano, dopotutto), ecco piombarti addosso una citazione modello “pane e brioche”: «Non è colpa mia, mi fido degli uffici e non ho risorse» (per l’autore citofonare Francesco Pettignano).

L’altro caso è forse ancor più grave. Perché, qui, abbiamo a che fare con la salute delle persone. Se dal Comune ti aspetteresti delle scuse, ma capisci anche che forse pretenderle sarebbe eccessivo, di fronte al muro di gomma eretto dall’Ats Insubria questo atto di comprensione non puoi davvero averlo. L’ex Asl (ormai da decenni lottizzata dai partiti) che dall’arrocco in quel di Varese pretende di dettar legge anche su Como, da febbraio a oggi ha fallito sul fronte dei tamponi, ha fallito sul fronte dei presidi di protezione, ha fallito sul fronte della gestione delle Rsa, ha fallito sul fronte della comunicazione ai Comuni dei casi positivi al Covid e degli isolamenti domiciliari, ha abbandonato a se stessi i contagiati rimasti in casa, e anziché chiedere scusa e fornire spiegazioni propina numeri parziali (negando quelli che vengono espressamente richiesti e che potrebbero aiutare a comprendere meglio quanto avvenuto in questi mesi) per poter esclamare (di fronte a quasi 800 anziani morti nelle case di riposo): «Un attento monitoraggio della situazione nelle Rsa del nostro territorio ha prodotto il risultato positivo di un elevato numero di Rsa Covid-free». Senza pudore. Senza vergogna. Parafrasando Maria Antonietta: «Se non hanno più vergogna, speriamo almeno non arrivino al panettone».

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