Gianni Rivera, ottant’anni vissuti da numero 10

“Zero a zero anche ieri ’sto Milan qui, ’sto Rivera che ormai non mi segna più”. Anche la canzone “Vincenzina davanti alla fabbrica” di Enzo Jannacci, colonna sonora di uno dei capolavori di Mario Monicelli, “Romanzo popolare”, omaggia il Gianni rossonero.

E a ricordarlo c’è anche una targa allo stadio Azteca di Città del Messico, dove l’allora numero 14 della nazionale italiana segnò un gol iconico, quello del 4-3 che avrebbe deciso la “partita del secolo”, Italia-Germania, semifinale dei mondiali del 1970. Quante generazioni hanno in mente quel fotogramma in bianco e nero che inquadra il portiere tedesco, Sepp Maier, inginocchiato dopo essersi tuffato a tirar su l’erba, con il pallone piazzato da Rivera di piatto destro (lui pensava di aver calciato di sinistro) che baciava l’altro angolino della porta?

Gianni Rivera oggi compie 80 anni, e alle panchine dei giardini sembra preferire quella di un campo di calcio, se qualcuno gliela offre: magari la Nazionale azzurra con cui ha avuto un rapporto più che tormentato.

Sembra incredibile a chi l’ha visto in campo con la maglia rossonera a righe strette (la più bella di tutte quelle del Milan). Lui è stato tanto altro: parlamentare, dirigente calcistico, sindacalista del pallone. Ma, un po’ perché gli eroi son tutti giovani e belli, e tanto per quello che faceva vedere, riusciamo a ricordarlo soprattutto come calciatore. Gianni aveva il numero 10, quello che tutti i bambini sognavano quando le squadre scendevano in campo con le maglie dall’1 all’11. Negli anni ’70, la maggior parte degli adolescenti tifava per la Juve perché vinceva spesso e facile, qualcuno all’Inter affascinato magari dai freschi ricordi dei padri per le gesta dell’undici SartiBurgnichFacchetti ecc... guidato dal “mago” Herrera.

Chi sceglieva il Milan lo faceva quasi esclusivamente per Rivera. Vederlo in campo era pura armonia, le movenze perfette, il capello alla moda abbastanza lungo mai scomposto e la palla che viaggiava dai suoi piedi verso quelli degli attaccanti segnando traiettorie da manuale di geometria. Rivera ha realizzato parecchi gol (in un campionato è stato anche capocannoniere), ma di più ne ha fatti fare a Bigon, Prati, Sormani, Combin, Chiarugi, Calloni e, a fine carriera, persino a un difensore come il compianto Aldo Maldera, artefice assieme a Gianni dello storico scudetto della “stella”, il decimo. Non a caso è il primo italiano a conquistare, nel 1969, il Pallone d’oro.

Rivera è stato numero 10 anche dopo aver smesso di giocare. Indirizzava, gestiva e sceglieva i tempi della sua vita e di qualcuno che la incrociava, nel bene e nel male. Per questo piaceva anche e, d’altro canto, era odiato, per sue battaglie donchistiottesche contro un sistema, quello calcistico, che, paragonato al dopo e a oggi, era da mammolette, ma mostrava già crepe e storture.

Il golden boy aveva dato il meglio di se negli anni dal 1965 al 1970, quelli spensierati, portando il Milan sul tetto d’Europa e del mondo. Quella era una squadra del tutto dipendente da lui, forgiata da Nereo Rocco con tanti “vecchi” rianimati dal Paron e guidati da questo vecchio ragazzo con la fascia da capitano. L’allenatore rossonero, triestino che non esitava a mandare in mona chiunque gli capitasse a tiro, per Gianni aveva un rispetto sacrale. Eppure, quando questo minorenne era arrivato al Milan dall’Alessandria, Rocco l’aveva visto gracilino (lui si sa amava i “manzi”) e avrebbe voluto darlo in prestito per fargli fare le ossa. Era stato Gipo Viani a opporsi e da lì il Milan aveva imboccato la strada per lo scudetto e la prima coppa dei campioni vinta da una squadra italiana. Del resto, forse solo Maradona è stato decisivo come Rivera per una squadra di calcio (ogni riferimeto all’Argentina campione del mondo nel 1986 non è puramente casuale).

Deli anni ’70, Rivera ha incarnato anche la rabbia e la ribellione. Assieme a Sandro Mazzola (bandiera dell’Inter) aveva affiancato Sergio Campana nella fondazione del sindacato dei calciatori. E sindacalista in campo lo è stato fino all’ultimo, in un’eterna vertenza con il sistema e con gli arbitri, in particolare Concetto Lo Bello, che forse non sopportava Gianni perché voleva essere l’unica primadonna in campo. Alcuni anni fa nel programma televisivo “Sfide”, il difensore della Lazio Pino Wilson raccontava che prima del Lazio-Milan dell’anno avvelenato della fatal Verona (lo scudetto della stella perso all’ultima giornata dai rossonero), Lo Bello era entrato nello spogliatoio dei biancocelesti per comunicare loro che se avessero picchiato il numero 10 avversario (cioè Rivera) lui li avrebbe lasciati fare.

Altri tempi e altro calcio. Chissà se adesso, nel momento di spegnere le 80 candeline, Rivera si sta guardando indietro e pensa se avrebbe fatto o no le stesse scelte (anche quelle, non felicissime, da dirigente del Milan). Ma forse sì perché la coerenza non gli è mai mancata, nel bene come nel male. E ha pagato parecchi prezzi: compresi i soli sei minuti giocati nella finale del mondiale 1970 contro il Brasile, dopo essere stato l’eroe della semifinale. Vale quello che aveva detto Pelè: “Se l’Italia si permette di tenere in panchina Rivera, il vincitore del pallone d’oro, chissà che fuoriclasse ci saranno in campo”. Si sa com’è andata a finire.

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