Il passante di Leopardi ci guida nel 2026

Passano gli anni, si succedono le generazioni, ma al liceo funziona sempre allo stesso modo. Alfieri non piace quasi a nessuno. Parini a nessuno. Manzoni a nessunissimo (che ingiustizia!). Foscolo a qualcuno. Leopardi a tutti.

Forse perché è il più malinconico. Forse perché è il più disperato e la disperazione è la condizione connaturata all’adolescenza (“Avevo vent’anni: non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”, scrive Paul Nizan in uno degli incipit più potenti del Novecento) e quindi la più comprensibile, la più condivisibile. O forse perché è il più grande di tutti, e non solo in Italia, probabilmente. Il più universale. Il più commovente. Se vedi una luna silenziosa e indifferente, pensi a Leopardi. Se senti montare il magone della domenica sera e la sua straziante solitudine, pensi a Leopardi. Se rifletti sull’anno appena passato con tutte le sue tragedie e su quello che sta per arrivare con tutte quelle nuove, pensi a Leopardi. Che proprio a questo tema ha dedicato un celeberrimo scritto in prosa intitolato “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”, pubblicato nelle “Operette morali” nel 1834 come sviluppo di una riflessione del 1827 contenuta nello “Zibaldone”, lo sterminato diario intimo che ha ispirato tutte le sue opere.

È un testo di due pagine, si legge in cinque minuti, è stato composto due secoli fa, ma è come se lo avesse scritto ieri. O domani. O fra mille anni, tanto è attuale, di una profondità assoluta, irrorato da un’ironia elegante e amarissima, che tratteggia il rapporto tra gli uomini e il tempo che passa, tra la loro piccola vita e l’ineluttabilità del dolore, che è sempre lo stesso, visto che non cambia mai nulla su questo vecchio sasso e che speranze e delusioni sono destinate a ripetersi nello stesso identico modo per sempre.

E così, il passante chiede al venditore se gli piacerebbe che il nuovo anno fosse come quello passato, ma lui risponde di no perché quello non è stato un anno felice. E neppure quelli che lo hanno preceduto. Eppure la vita è una cosa bella a prescindere, insiste il passante, e il venditore gli dà ragione, certo che lo è, e quindi vorrebbe tornare indietro con il tempo, ma a condizione di non rivivere gli stessi piaceri e gli stessi dispiaceri già sperimentati, perché i primi sono pochi, i secondi tanti e perché il destino ha trattato male tutti. È per questo che nessuno vorrebbe rinascere alle stesse condizioni: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”.

C’è qualcosa di più perfetto per commentare il 2025 che sta svanendo e per capire già tutto del 2026 che sta spuntando? Certo che vorremmo tornare indietro di un anno, o anche di più, saremmo tutti più giovani, ma è altrettanto certo che non vorremmo rivivere le stesse identiche cose: quelle brutte sono troppe e deprimenti, quelle belle poche e fragili e molto spesso irripetibili, le hai appena vissute e se ne sono già andate, oppure ti hanno annoiato e ne cerchi subito di nuove. Nessuno vorrebbe rivedere i massacri del mondo (anche se tutti abbiamo pianto per i bambini morti a Gaza, quasi nessuno ha pianto per i bambini morti in Ucraina e assolutamente nessuno ha pianto per i bambini morti in Sudan: chissà perché?). Nessuno vorrebbe rivedere i disastri climatici, le stragi in famiglia, i diseredati senza una casa, i disperati senza una lira, i malati senza speranza, l’ingiustizia senza condanna. Nessuno vorrebbe rivedere le ridicole declamazioni della propaganda di destra che adesso cambia tutto, che adesso va tutto bene, che adesso sì che amiamo la patria. Nessuno vorrebbe rivedere le ridicole indignazioni della propaganda di sinistra che adesso torna il fascismo, che prima sì che eravamo competenti, che prima sì che eravamo rispettati in Europa. Nessuno, in particolare, vorrebbe rivedere le schiere e le mandrie e i plotoni di servi, zerbini e leccapiedi dei nuovi padroni che affollano i talk show di destra e di sinistra, che prima scodinzolavano tutti alla Festa dell’Unità, poi tutti al Meeting di Rimini e adesso tutti ad Atreju, perché non c’è niente da fare: è sempre la lingua l’organo più sviluppato nella repubblica delle banane.

Ma soprattutto nessuno vorrebbe rivivere le proprie meschinità, le proprie infamie, le proprie vergogne, le proprie mormorazioni, le proprie bugie. E nessuno vorrebbe essere ancora così miserabile e superficiale e deludente come è stato lungo tutto quest’anno e quello prima e quello prima ancora. E magari lo promette a se stesso di non esserlo più o almeno di tentare di non esserlo, anche se sa già che andrà a finire come al solito. E che si ritroverà pure stavolta a San Silvestro con il bicchiere di spumante in mano a riflettere su quanto la vita sia uno schifo, ma uno schifo vero, eppure che ci sia qualcosa di insondabile che lo spinge a tenersela stretta e a farla sua e addirittura ad amarla, a dispetto di tutto, proprio come il condannato a morte di “Delitto e castigo” al quale, se gli toccasse vivere su una roccia e intorno a lui ci fossero solo abissi, l’oscurità eterna, un’eterna solitudine e un’eterna tempesta e dovesse rimanere così per tutta la vita, per mille anni, in eterno, preferirebbe vivere in quel modo che morire subito: “Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere! che verità! Che verità, Signore! È vile l’uomo! Ed è vile chi per questo lo chiama vile!”.La vita ci è cara, a qualunque condizione e qualsiasi cosa di orribile capiti nella nostra casa o nel vasto mondo, perché è l’unica cosa che abbiamo. L’illusione della felicità futura ci è necessaria per sopportare l’infelicità del passato. È per questo che il passante è così ottimista sulla gioia che ci attende tutti l’anno prossimo. E così dobbiamo essere anche noi. Un anno meraviglioso ci aspetta, prepariamoci ad accoglierlo come merita.

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