Il virus e la crisi
del modello sociale

Il fuoriclasse è quello che tira fuori il colpo che non ti aspetti. Quello che rompe gli schemi. Quello che fa la mossa del cavallo. Quello che, nel bel mezzo della valanga di notizie, dati, commenti, retroscena, polemiche, fobie, deliri e, soprattutto, sciocchezze nella quale sono inzaccherati i media, possiede l’acume e il coraggio per impostare una riflessione altissima, terribile, spietata al limite del disturbante, sul coronavirus.

Il fuoriclasse in questione è Giuliano Ferrara, che in un editoriale pubblicato sabato scorso sul Foglio - e naturalmente passato sotto silenzio, perché è di questa fanghiglia che è fatto il mainstream della comunicazione - si poneva, con il supporto dell’economista Francesco Giavazzi, la seguente questione. Se il virus funzionasse pandemicamente come una grande scrematura, sopprimendo in ogni latitudine e contesto socioeconomico tantissimi anziani fragili patologici, che abbondano nel mondo sviluppato, ne uscirebbe una società più forte, più dinamica, più produttiva, più innovativa? Alla fine, la risposta dei due intellettuali - anzianotti pure loro - era tanto ferma quanto agghiacciante. Sì.

Ed è così. È sempre stato così. Pensate all’equilibrio sanguinoso su cui si basa la legge di natura, quello metaforizzato dal rapporto tra erbivoro e predatore, che ogni giorno sbrana, ma non a caso: sempre il vecchio, il ferito, il malato. E così facendo, permette al branco di essere costituito da soli esemplari sani e nel pieno delle forze. È il welfare della savana, bellezza, e nessuno può farci niente. E non è sempre stato così nelle popolazioni primitive, ma anche in quelle della storia classica? Non era poi questa la filosofia riassunta nella leggenda del Monte Taigeto a Sparta? Il debole diventa un peso per la comunità a tal punto da mettere a rischio la sua stessa esistenza e quindi il sacrifico individuale permette agli altri di poter sopravvivere. Non c’è qualcosa di commovente in questa turpitudine? E non è per questo che troviamo intollerabile la morte di un bambino e invece dolorosa e malinconica, ma alla fine comprensibile, la fine di un novantenne, estrema gramaglia dell’eternità del cerchio della vita?

Ma noi non siamo così. Non siamo più così da tanto tempo, ormai. Tutta la storia dell’occidente, che è stata innervata dal cristianesimo prima e dal razionalismo-illuminismo poi, ha posto tra i suoi paradigmi la centralità, anzi, la sacralità della vita del singolo individuo, dell’individuo in sé, dell’individuo in quanto tale e della vita, della vita unica e irripetibile, della vita valore assoluto e intangibile. Quindi della vita di tutti. Anche degli ultimi, dei disperati, dei reietti, dei deformi, dei malati, dei vegliardi. Ed è giusto, anzi, è sacro che sia così. Un lungo cammino drammatico che ha portato, una volta trovata la chiave di volta della pace prolungata, dello sviluppo ininterrotto, del benessere garantito, a un continuo innalzamento della vita media. E quindi, eccoci qui. Una società ricca ed evoluta, ma sempre più vecchia. E anche se gli anziani di oggi non hanno più niente a che vedere con quelli di soli quarant’anni fa - ora sono attivi, giovanili, iperconnessi, moderni, giramondo - diventano comunque, prima o poi, inesorabilmente fragili e costosi.

Eccoci arrivati al punto. All’inevitabile crisi del modello. Il sistema pensionistico - sempre meno lavoratori per mantenere sempre più persone a riposo - non regge più. Il sistema sanitario - sempre più pazienti che hanno bisogno di assistenza lunga e dispendiosa - non regge più. E non è che l’inizio. Basta guardare le proiezioni statistiche: appena i baby boomers, quelli che oggi galleggiano tra i cinquanta e i sessant’anni, diventeranno anziani le società occidentali dovranno gestire un brulichio sterminato di patologie, fragilità, lungodegenze, malattie degenerative, supporti domiciliari assolutamente esponenziale rispetto a quello già oneroso di oggi. Ecco il dramma che si profila. E che è certo, matematico, algoritmico.

Il fulcro del ragionamento di Ferrara è proprio questo: è stato presentato il conto a un’umanità che - corrusco patto faustiano - ha avuto l’ardire di reinventare la vita, autorizzando una vecchiaia sempre più lunga. È questo il vero virus che dobbiamo affrontare, molto più letale di quell’altro. Come fare? Come fare per mantenere la centralità, la dignità e la lunghezza della vita, ma anche la sua sostenibilità? Dobbiamo sperare che la livella del coronavirus ci tolga le castagne dal fuoco oggi e molto di più domani? Dobbiamo tornare al sanguinoso modello maltusiano, che fa cadere la ghigliottina su tutti quelli che eccedono rispetto alle risorse naturali disponibili? Tanta fatica, tanto pensiero, tante lotte lungo gli ultimi due secoli per poi tornare al punto di prima, quando ci pensavano le guerre - che mietono i giovani - e soprattutto le epidemie - che invece falciano i vecchi - a bonificare gli eccessi di popolazione? È davvero questa la nostra soluzione finale? Come facciamo a essere così cinici da accettarlo e così farisei da far finta di non capire che l’invecchiamento progressivo è il vero problema del mondo?

Vasto programma. Scelta di civiltà. Sfida devastante per la quale ci vorrebbero dei De Gaulle, degli Adenauer, delle Thatcher, non certo quei nanetti ridicoli e logorroici che infestano le poltrone del potere, soprattutto in Italia. Urgono statisti che ribaltino tutto, cambino modello di sviluppo e drenino risorse inimmaginabili per costruire una società che faccia più figli, accolga in modo ordinato più giovani stranieri (con buona pace dei demagoghi da fiaschetteria) e ponga le pietre d’angolo di una comunità iperevoluta ma, in quanto sempre più anziana, iperfragile. E lo pensi da ora, da subito, approfittando dell’attuale sciagura planetaria. Perché altrimenti nel 2040 basterà il fratello scemo del coronavirus per menare strage in quel che resta della nostra civiltà cellulitica, pusillanime e filistea.

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