La coscienza del male e le parole inutili

A colpi d’ascia. Nel duplice, sconvolgente, gratuito delitto di Rodion Romanovic Raskol’nikov, il protagonista di “Delitto e castigo”, c’è tutto il mistero dell’essere umano.

Il capolavoro di Dostoevskij - scrittore gigantesco, demoniaco, ai limiti dell’inarrivabile, che ha basato tutta la sua opera letteraria, dall’“Idiota” ai “Fratelli Karamazov”, su un’unica domanda assoluta: perché esiste il Male? - rappresenta la chiave di lettura più corretta quando ci troviamo di fronte all’esplodere inspiegabile della violenza. Raskol’nikov è un giovane, piccolo borghese, espulso dall’università, febbricitante e febbrile, divorato da un inspiegabile orrore di vivere. Crede di essere un grande uomo. Crede che i superuomini siano sottratti alla legge morale - se Dio non esiste tutto è lecito -, non crede in nulla, ha bisogno di schiacciare un pidocchio, una vecchia usuraia avida e cattiva per iniziare a ripulire il mondo. Ed è quello che fa, proprio a colpi d’ascia, e uccide pure l’innocente sorella della donna. Non c’è rapina, non c’è movente vero, non c’è spiegazione logica e razionale, non c’è coerente premeditazione, non c’è determinismo sociale né follia criminale. Non c’è niente. E infatti c’è tutto. C’è l’uomo del sottosuolo che emerge rabbioso dai suoi inferi. Abisso e rimorso, solitudine e conforto, perdizione e redenzione. Delitto e castigo, appunto.

Di fronte alla dura realtà, di fronte allo scandalo del male, dell’assassinio, a nulla servono le spiegazioni e le analisi psicologiche né tanto meno quelle sociologiche, perché il mistero del singolo individuo tale è destinato a rimanere per sempre. Proprio per questo la vicenda dell’omicidio della giovane incinta di Senago, uccisa dal fidanzato senza alcun motivo, una notizia di cronaca di rara brutalità e insensatezza, ma anche, caso molto meno grave, però pure questo paradigmatico, dello studente che ha pugnalato la sua insegnante in una scuola di Abbiategrasso, di fatto non sono spiegabili. Ed è per questo che suona particolarmente stucchevole, come sempre avviene in casi del genere, tutta la grancassa mediatica che si affanna a motivare il perché e il percome dell’omicidio e dell’accoltellamento. Al di là dei fatti, c’è ben poco da capire, perché nulla può essere capito.

E invece, figurarsi, è subito partito lo psicologismo da rivista, il sociologismo da talk show e ai giorni nostri la morte è diventata banale, signora mia, e non ci sono più le famiglie di una volta che insegnavano i valori, caro lei, e il narcisismo e il sincretismo di massa che tutto travolge, non mi dica, e la scuola che non educa più e che fine hanno fatto gli oratori e qui una volta era tutta campagna e che mondo lasceremo ai nostri figli e un’infinita serie di riflessioni pensose assai che sembrano tanto intelligenti e che però tutti quanti noi del circo mediatico abbiamo fatto pari pari anni fa con la strage di Erba e prima con Erika e Omar e prima con Cogne e prima con Ferdinando Carretta e prima con Pietro Maso e prima con il mostro di Firenze e giù giù fino a Landru e a Romolo e Remo. Senza dimenticare che quelli a cui una volta le famiglie insegnavano i valori e bla bla bla, poi negli anni Settanta sarebbero andati in piazza a sparare ai poliziotti, ai magistrati e ai presidenti del consiglio. Per non parlare di quanto fossero fortunati - sempre quando c’erano i valori eccetera - gli abitanti della Polonia degli anni Quaranta o della Germania degli anni Trenta o dell’Italia degli anni Venti o della Grecia o dell’Argentina degli anni Settanta e le altre migliaia di casi che si potrebbero affastellare in un elenco infinito.

Suona tutto molto ridicolo, se non fosse tragico. Il male non è inquadrabile. Non è contabilizzabile. Non è discernibile. Non ha radici sociologiche, psicologiche, antropologiche. Non lo incaselli. Non lo cataloghi. Non lo archivi. È banale e straordinario, strisciante e folgorante, è insito giù giù in fondo al cuore cavo e marcio dell’uomo, come diceva Pascal. Non c’è educazione, non c’è pedagogia, non c’è catechismo. Il male è. E quando esplode - e può esplodere ovunque, dovunque e dentro chiunque - lascia senza risposte. E senza parole.

Ecco, senza parole. Forse è questa l’unica cosa decente da fare quando ci arriva in faccia l’enormità di un omicidio come questo. Restare senza parole, invece di sproloquiare su tutto, di tutto e dappertutto per poi pontificare e discettare e catoneggiare e ammonire sul degrado dei costumi e tutto il resto della fuffa da trasmissione del pomeriggio, che manda inesorabilmente in onda il piagnisteo delle prefiche televisive che commuovono tanto la casalinga di Voghera. Meglio starsene zitti.

Cosa vogliamo dire al papà e alla mamma della ragazza uccisa a coltellate con un bambino di sette mesi in grembo - e quindi gli assassinati sono due, perché quello già dal concepimento era un essere umano, o no? -, cosa vogliamo raccontare alla madre e al padre dell’assassino? Cosa gli diciamo? Che per fortuna c’è il paradiso? Che questo è un seme gettato nella terra che un giorno germoglierà? Che ora bisogna perdonare? Che è colpa della società cattiva, che è colpa dei poteri forti, che forse è addirittura colpa loro? Cos’è, una predica di Recalcati? L’unica cosa da fare è starsene zitti. Zitti. Ma zitti per davvero. I loro cari gli facciano compagnia. Li accompagnino a fare la spesa. Gli portino a spasso il cane. Gli chiedano dei loro figli, quelli che gli sono rimasti. Li invitino a mangiare una pizza. Basta. Niente di più. Senza dire nulla. Senza parlare. Senza spiegare. Perché non c’è nulla da spiegare, perché nulla può essere spiegato.

A loro non resterà altro che vivere. O meglio, sopravvivere. Una lunga, lunga serie di giorni e di lunghe serate e loro, come nella commovente pagina finale dello “Zio Vanja”, sopporteranno con pazienza le prove che il destino gli ha mandato e quando verrà quel giorno diranno che hanno sofferto, che hanno pianto, che hanno sentito tanta amarezza e che Dio, alla fine, ha avuto pietà di loro.

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