La prova che viviamo in un Paese
garantista

La difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano ha fatto bene a riportare il caso della strage di Erba in un’aula di Tribunale. Perché come per magia, dopo anni di tamburellanti servizi e presunti scoop e trasmissioni e illazioni contro i parenti stessi delle vittime, il chiacchiericcio e il pettegolezzo dei “si dice” si è spento, per dar voce al diritto, alla legge, alla giustizia, «nell’alveo della normalità e della ritualità processuale».
Il primo evidente effetto è legato alle vittime. All’improvviso la storia che per tutti è diventata quella di “Rosa e Olindo” è tornata a essere la storia di Youssef, Raffaella, Paola, Valeria e Mario. Le vittime, in tutti questi anni, sono state dimenticate. O, peggio, usate iconograficamente solo per accompagnare, tra stacchetti musicali e balletti, immagini di corpi esanimi (ancorché “pixellati” alla bell’e meglio), servizi per suggerire il possibile coinvolgimento di famigliari nella strage. E questo conduce al secondo effetto: finalmente si è potuto urlare a gran voce che è una vergogna quello che i parenti delle vittime, Pietro Castagna in testa, hanno dovuto subire in questi ultimi anni, nei quali il caso è passato dalla giustizia dei giudici a quella dei mezzi d’informazione e dei social.

Terzo: è stato anche possibile tornare a far parlare gli atti e le carte, da sempre ben più importanti delle suggestioni. Il richiamo fortissimo a tutti quei passaggi, non veri o non dimostrati eppure dati per assodati, contenuti nelle tesi revisioniste, ha consentito di ricordare a tutti quanti che la colpevolezza di qualcuno si deve obbligatoriamente basare sulle prove. E quindi su tutti quei fatti che vengono dimostrati, verificati, attentamente vagliati e che solo allora acquisiscono la forza di poter trasformare un innocente in un colpevole.

Quarto: il ritorno, 17 anni dopo i fatti, di una vicenda tanto dolorosa dentro un'aula di giustizia, racconta anche un’altra verità clamorosamente fatta a pezzi negli ultimi anni da una narrazione avvelenata. E cioè che il nostro è uno dei Paesi più garantisti al mondo.

Provate ad andare nei tanto pubblicizzati e sognati - giuridicamente parlando - Stati Uniti, non già a chiedere una revisione, ma solo a fare appello a una condanna di primo grado, ancorché con sentenza di morte. Ciò che è accaduto venerdì mattina a Brescia e che succederà il prossimo 16 aprile è la dimostrazione di un sistema che funziona e che garantisce i cittadini. Gli errori giudiziari? Certo, ci sono. Come tutte le vicende umane, anche l’amministrazione della giustizia vive di errori. Ma più di altre vicende umane, il sistema giustizia sa trovare anche la cura e sa emendare quegli errori. Al netto di una tendenza sempre più in voga, così cara ai social: gettar fango su intere categorie umane e professionali perché nulla funziona, perché siamo il Paese delle banane o, peggio, viviamo in “itaglia” (come scrivono taluni, che dimenticano di poter storpiare il nome del proprio Paese perché sono nati qui e non nella Russia di Putin).

E infine: il ritorno in aula consentirà ora anche di apprezzare, al netto delle suggestioni giornalistiche, la forza reale delle ragioni della difesa. Che nel silenzio delle parti potrà elencare i motivi per i quali ritiene Romano-Bazzi condannati ingiustamente per la mattanza dell’11 dicembre 2006. Avrà il tempo di illustrare le ragioni, le eventuali prove, le argomentazioni per le quali il caso dovrebbe essere riaperto. Quindi si arriverà a una sentenza. E da quell’aula il fascicolo dovrà obbligatoriamente uscire. Ecco, la speranza è che, una volta che questo avverrà, non si ritorni ai “si dice”, ai “secondo me”, alle illazioni, alle accuse. Ma al rispetto che le vittime e le loro famiglie meriteranno: il silenzio. L’oblio.

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