La settimana corta “obbligata” dei politici

Dai e dai l’anti politica ce l’ha fatta. A rivelarlo, ieri nella trasmissione del mattino di Radio 24 è stato Filippo Sensi, senatore del Pd. Il parlamentare non ha nascosto il disagio legato al fatto che il lavoro dei cosiddetti rappresentanti del popolo si è ridotto a due, massimo due giorni e mezzo la settimana: dal martedì pomeriggio al giovedì sera, salvo situazioni eccezionali come la sessione di bilancio, in corso in questo periodo di fine anno. Facile dire che deputati e senatori hanno messo in atto una settimana molto più corta di quella che stanno sperimentando alcune aziende del Paese. Ma la realtà è un’altra.

Al Parlamento è rimasto ben poco da discutere. Perché gran parte dell’attività è assorbita dalla conversione di decreti legge elaborati dal governo (non solo da quest’ultimo, la tendenza è cominciata bene prima), oppure dai disegni di legge di iniziativa dello stesso esecutivo.

La riduzione del numero dei componenti delle assemblee legislative voluta dalla principale forza che si oppone, a parole, alla “casta”, il Movimento Cinque Stelle, ma approvata da quasi tutti i partiti, ha peggiorato la situazione. In questo caso nelle commissioni parlamentari. Perché, essendosi ridotti della metà i parlamentari, quasi tutti devono far parte di più organismi, spesso convocati nello stesso orario. E allora, come ha raccontato ancora Sensi dopo aver dichiarato di essersi pentito del suo assenso alla legge “meno onorevoli”, finisce che i commissari partecipano ai lavori solo quando c’è votare, vagando da una riunione all’altra.

Il depauperamento delle Camere non è un problema secondario in democrazia. Ma di certo si deve al vento che è cominciato a soffiare negli anni di Manipulite e ha poi sempre trovato qualcuno in grado di manovrarne l’otre. A fare le spese dell’insofferenza nei confronti della politica, non sono stati però i governi che, anzi, hanno visto rafforzare il proprio ruolo e anche un po’ a stravolgerlo, considerato che parliamo di un potere “esecutivo” cioè che consente l’applicazione delle leggi e non le realizza salvo che vi siano situazioni particolari, a scapito appunto del potere “legislativo” il Parlamento appunto, ridotto non solo numericamente, ma anche alla funzione di passacarte. A ingigantire il potere dei governi, è stato di certo il ricorso a premier e compagini ministeriali “tecnici”. Il primo è stato Ciampi, cui sono seguiti Dini, Monti e Draghi, al di là della “politicizzazione” che poi hanno praticato alcuni tra questi presidenti del Consiglio. Il fatto che queste scelte siano state derivate proprio dall’impotenza degli esecutivi di matrice parlamentare ha contribuito ulteriormente a indebolire le assemblee di Montecitorio e palazzo Madama. Se si aggiunge poi, che i due governi politici prima dell’attuale vedevano una presenza non certo marginale dei Cinque Stelle (quelli che volevano aprire il Parlamento come una scatola di sardine), tutto si tiene.

Ultima cosa, ma non secondaria, è la legge elettorale che in buona parte toglie ai cittadini la possibilità di scelta dei propri rappresentanti lasciandola saldamente in mano alle segreterie dei partiti. Perciò immaginiamoci cosa potrà accedere se dovesse passare l’elezione diretta del presidente del Consiglio. L’Italia dovrebbe essere una democrazia parlamentare, ma con un ruolo così marginale di Camera e Senato, questa diventa una mera educazione di principio. E forse, oltre a pentirsi del voto dato alla riduzione del numero dei componenti delle assemblee legislative, qualcuno forse potrebbe ripensare anche alla bocciatura referendaria delle riforme proposte dal governo di Matteo Renzi che avrebbero modificato le competenze di Camera e Senato, ora di fatto identiche e perciò esposte ancora di più al vento dell’anti politica.

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