Le occasioni “mondiali” che l’Italia ha sprecato

Fra le tante letture critiche de “Il sorpasso”, uno dei capolavori assoluti della cinematografia italiana, ce n’è una particolarmente acuta che lo identifica come la storia di un assassinio. L’Italia seria, timida, volenterosa, pervasa di rigore etico e amore per lo studio, rappresentata da Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant), viene prima sedotta e poi “uccisa” dall’Italia cialtrona, caciarona, lazzarona e arrogante di Bruno Cortona, reso immortale da Vittorio Gassman.

E’ un’analisi splendida, metafora di quello che avrebbe potuto essere questo paese e che invece non è stato, perché in quel momento magico, quello del boom economico e sociale dopo la guerra (il film è del 1962) tutto avrebbe potuto cambiare per davvero, tutto avrebbe potuto essere ricostruito secondo criteri rigorosi e la nuova Italia risorta dalle macerie avrebbe potuto con pazienza, lavoro e genialità diventare un paese solido, moderno, meritocratico e solidale. E invece è andata nell’altro modo. E’ il simpaticissimo, insopportabile “italiano medio” Gassman che sopravvive, è il timido e sensibile “italiano diverso” Trintignant che muore, proprio nel momento in cui tradisce la sua natura e incita il compagno di avventura a spingere sull’acceleratore, ad andare sempre più forte, a provare il sorpasso.

Se ci pensiamo bene, la stessa cosa è accaduta vent’anni dopo, nell’ormai lontano, purtroppo, 1982. Anche in quel caso l’Italia era appena uscita da uno dei suoi decenni più bui, quegli anni Settanta che l’avevano devastata da un punto di vista politico, economico e soprattutto sociale, con una sequela infinita di scontri, rapimenti, omicidi, terroristi e stragi di Stato. L’avvento degli anni Ottanta sembrava aver messo la parola fine a quella scia di sangue ed estremismi, di recessione ed ingiustizie e anche in quel caso c’è stato un momento altrettanto magico, capace di sintetizzare tutta quella voglia di ricominciare, di liberarsi dai fantasmi del passato, di uscire finalmente dalla stagione tragica delle ideologie per entrare in quella della libertà, del primato dell’individuo, della ragione critica, dello spirito laico. Chi ha vissuto con un minimo di sale in zucca i mondiali di calcio del 1982, ha colto quanto quella vittoria del tutto inaspettata avesse in sé un valore molto superiore a quello del mero trionfo sportivo.

Era quello il momento. Era quello l’attimo fuggente. Era quello il treno da prendere al volo. Ripresa economica, rinnovamento delle leadership nazionali e internazionali, apertura all’Europa: avrebbe potuto essere quella la pietra d’angolo su cui edificare un’Italia moderna, che si liberasse dai vincoli borbonici del suo Stato inefficiente, occhiuto e persecutorio, per dare alle nuove generazioni vere opportunità, per smetterla di giocare sempre e solo in contropiede. Quel paese che nel calcio aveva battuto tutti i favoriti avrebbe dovuto cogliere l’occasione per non essere più l’Italia, la solita Italia, la solita inaffidabile Italia spaghettara, con i suoi italiani, i suoi pagliacceschi italiani baffo nero mandolino che gesticolano e raccontano barzellette e non pagano i debiti (e le tasse) e vivono al di sopra delle loro possibilità e lavorano in nero, quelli che lavorano, e campano di sussidi e di espedienti e di baby pensioni e di pre pensioni e di false pensioni e di precari che diventano di ruolo senza concorso o con il concorso truccato e di familismo amorale e clientelare e di amici degli amici e il dottore è fuori stanza e qui il primo che si alza comanda ed è tutto un magna magna e bla bla bla… Insomma, l’ennesima Italietta da avanspettacolo.

L’onda che sembrava irrefrenabile dei gol di Rossi e Tardelli avrebbe potuto - avrebbe dovuto - spingerci più in là, molto più in là, oltre i nostri limiti e oltre i meri festeggiamenti e strombazzamenti in piazza e diventare modello virtuoso per la politica, che invece di saltare sul carro dei vincitori – primo fra tutti lo stucchevolissimo Pertini, che figurarsi se perdeva l’occasione di mettere in piedi una delle sue solite sceneggiate pur di alimentare il monumento a se stesso - avrebbe dovuto prendere quell’onda per far entrare l’Italia nel club dei paesi seri.

Ma noi società civile non siamo stati da meno - i politici non sono alieni, sono soltanto la nostra proiezione – abbiamo pensato solo a festeggiare, a brindare, a stappare bottiglie, a fare i fenomeni, illudendoci che fosse tutto facile. Su quell’epopea non è stato costruito nulla, così come quel ciclo economico eccezionalmente virtuoso non ha cambiato la struttura immodificabile di un mercato del lavoro rigido e inefficiente, di una tassazione intollerabile per chi paga e ignobile per chi non paga, di un ascensore sociale che non funziona schiacciando il bottone del merito, ma quello delle relazioni e delle affiliazioni, di una corruzione diffusa e sistemica, che sarebbe poi esplosa negli anni Novanta, di un nanismo dei salapùzi della politica che avrebbe lasciato campo allo squalismo della finanza e al superomismo della magistratura, insomma a tutto un modello sbagliato, profondamente sbagliato e insano che ci ha portati fino a qui, esattamente al punto in cui siamo, con una nazione a brandelli e una nazionale che ai mondiali non riesce manco più a qualificarsi.

Anche dopo la notte di Madrid l’Italia cialtrona e pressapochista ha ucciso quella seria e capace. Hanno vinto ancora quelli, i soliti noti, le solite conventicole, le solite caste, i soliti garantiti a prescindere, i soliti distaccati, l’Italia parassitaria che tira la palla in tribuna e si butta in area di rigore sperando di fregare l’arbitro. E’ la nostra maledizione, che spesso confondiamo con furbizia, senza capire che la furbizia è la prerogativa degli imbecilli e che la storia alla fine ti presenta sempre il conto.

Ma forse è anche una legge di natura. Forse non è un caso che la più forte, bella e coraggiosa nazionale di sempre - l’Olanda del 1974 – la finale dei mondiali l’abbia persa.

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