Quanti “like” può valere l’Olocausto? Messo così, il concetto fa inorridire e l’articolista – ovvero chi scrive – meriterebbe di essere immediatamente esposto alla gogna della piazza virtuale. Eppure, scostato il velo della provocazione, la domanda resta in attesa di risposta.
Il “like”, la condivisione, il commento magari infiorettato con una emoji o una “gif” fanno parte della comunicazione di oggi; di tutto si parla con questi strumenti e tutto si commenta, si esalta e si condanna: dalla scienza medica alla guerra, dal calcio allo spauracchio nucleare. Perché non l’Olocausto? Forse ci spaventa la superficialità della lingua social, ci ripugna la sua sua coloritura banale se messa a confronto con la grave cupezza della tragedia. Certo, è probabile: l’alternativa, però, potrebbe essere l’oblio, la cancellazione, il dilagare del cancro negazionista.
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