Se il processo è chiamato a inseguire lo show

Negli ultimi vent’anni ci si è scandalizzati – anche giustamente – di fronte al mondo dello spettacolo che ha inseguito la giustizia per trasformarla in materia da primetime. Ma sulla strage di Erba si rischia di andare ben oltre e assistere a un’inversione di tendenza ancor più preoccupante, con il processo chiamato a inseguire lo spettacolo. Preoccupano, in tal senso, le parole del procuratore generale di Milano Francesca Nanni secondo la quale «l’approfondimento è opportuno considerando il grande rilievo mediatico». Insomma: d’ora in avanti meglio evitare gli studi legali. Per far riaprire un processo chiuso basteranno le trasmissioni tv. Ovviamente è un’esagerazione. Francesca Nanni è un magistrato serio e stimato e, tra l’altro, ha espresso parere contrario alla revisione bollandola come inammissibile. Ma, a maggior ragione, sentire una autorevole alta dirigente di un potere dello Stato, quello giudiziario, affermare che il «rilievo mediatico» può diventare un motivo per ottenere un’udienza che potenzialmente potrebbe sfociare nel ribaltamento di ben tre gradi di giudizio, dovrebbe allarmare non solo i colpevolisti, ma pure gli innocentisti. Perché la legge a furor di popolo si traduce nella giustizia delle gogne e delle ghigliottine in piazza ed è tante cose fuorché uguale per tutti.

Ma senza voler aprire scenari apocalittici, in effetti un tantino esagerati per il caso di specie, quanto sta avvenendo attorno alla strage di Erba è sicuramente sconsolante. A cominciare dalle parole del sostituto procuratore generale Cuno Tarfusser che, candidamente, ha ammesso davanti alle telecamere de La7 di essersi appassionato alla vicenda dopo aver letto un libro. E c’è da chiedersi: è stata la difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano a contattare il magistrato o viceversa? Lo stesso magistrato si è talmente appassionato alle tesi innocentiste, da aver scritto le 58 pagine di richiesta di revisione senza neppure aver letto l’intero fascicolo della Procura sul caso, visto che quello si trova ancora negli uffici di Como. E neppure la Corte d’Appello di Brescia ha ancora chiesto copia di quel fascicolo, quindi - si presume - allo stato i giudici si sono limitati a fissare l’udienza dell’1 marzo sulla base degli atti della difesa e del dottor Tarfusser. Che ricalcano, in gran parte, il «rilievo mediatico» di certe trasmissioni tv. Quelle stesse trasmissioni che, impunite, sono arrivate a far dire a Rosa Bazzi che l’autore della strage potrebbe essere Pietro Castagna.

Su cosa si fonderà la decisione della Corte d’Appello? Sugli atti o su libri e trasmissioni tv?

Un corto circuito pericolosissimo, dove il famoso quarto potere sembra destinato a scalare la classifica e spodestare quelli costituzionalmente riconosciuti. Un quarto potere destinato a dare il colpo di grazia al sistema giustizia, ormai messo alla berlina dai luoghi comuni di quel moderno chiacchiericcio da bar che sono diventati i social, dove i luoghi comuni contro la presunta inefficienza della magistratura sono all’ordine del giorno.

Il fatto è che tutto questo «clamore mediatico» non è indolore. Perché la giustizia che insegue lo spettacolo finisce per ignorare le vittime. E infatti nessuno pensa che i fratelli Castagna e i fratelli Frigerio e forse lo stesso Marzouk meriterebbero di veder chiusa una volta per sempre la storia infinita della strage che ha massacrato i loro cari. E, paradossalmente, nessuno pensa neppure ai coniugi Romano. Che 17 anni fa avrebbero potuto avviare un percorso di riabilitazione che forse, oggi, li avrebbe resi veramente liberi. Se non dalle patrie galere, almeno liberi dalle false speranze e dagli incubi. Come quello, confidato da Olindo sulla Bibbia, di vedersi comparire «Raffaella, come quella sera, con il sangue che le scende sul volto e i colpi che io le ho inferto quando la uccidemmo». E poi parlano di confessioni estorte.

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