Suarez e l’Italia
posseduta dal calcio

In un episodio de “I mostri” - celeberrimo film di Dino Risi che offre uno spaccato impietoso e grottesco dell’Italietta vigliacca e cialtrona degli anni Sessanta - un baraccato romano si dispera per lo stato di miseria in cui versa la sua numerosa famiglia. È talmente povero da non potersi permettere nemmeno le medicine per il figlio malato, ma appena esce dal tugurio dove abita spende tutti i suoi spiccioli per andare allo stadio a vedere la Roma di Piedone Manfredini.

Sono passanti sessant’anni, ma stiamo sempre lì. Non tanto per i tuguri e i baraccati, che ci sono ancora, e neppure per i cialtroni, che pure quelli non mancano mai, ma per il livello subculturale, familistico amorale, straccione sì, ma anche antropologico, freudiano, totalmente irrazionale che ci lega, almeno noi maschietti, al mondo del pallone. È un universo altro, una terra di mezzo nella quale le categorie della razionalità, del buonsenso, della correttezza e dell’altruismo vengono completamente meno per dar spazio alle pulsioni più brute, più aggressive, più primigenie degli esseri umani. Non esiste etica, nella bolla della tifoseria, esiste solo volontà di potenza, ricerca dello spazio vitale, bisogno di sopraffazione e umiliazione del nemico. Insomma - di certo in questo sport, di certo in Italia: altrove non si sa - non esistono sportivi, esistono solo tifosi.

Questa legge atavica, ma inscalfibile ha avuto una sua plateale conferma nella clamorosa vicenda dell’esame di italiano di Luis Suarez - formidabile centravanti che doveva passare dal Barcellona alla Juventus - che sta regalando spunti degni di una sceneggiatura di Age e Scarpelli, sulla quale Risi o Scola o Monicelli se fossero ancora vivi - i registi italiani viventi sono troppo scarsi - avrebbero costruito una commedia feroce delle loro da sbancare il botteghino.

Gli elementi ci sono tutti. Il puntero uruguagio cattivo che più cattivo non si può e che aveva già dato prova di saper masticare l’italiano (il povero Chiellini…). La squadra che per la vulgata del Bar Sport quando c’è di mezzo un sospetto, un rigore, un’operazione opaca è sempre in prima fila: d’altronde, è o non è la squadra del Padrone? Professori universitari che dovrebbero essere una cosa seria, la crema del paese, e che invece allestiscono un esame degno del dialogo tra Totò, Peppino e il ghisa di Milano («noio volevam savuar… l’indiriss… ja!»). Inquirenti chiacchieroni che spifferano i dettagli dell’inchiesta al frinire dei pennivendoli della stampa suscitando le ire funeste - e tardive - di nientedimeno che il Totem dell’Onestà, Raffaele Cantone. E certe facce, certi ceffi, certe intercettazioni illegali, ma spassosissime, una sintassi da serie C - non quella di Suarez, quella dei docenti - un ambientino di traffichini, di scappati di casa, di anguille del sottobosco del culturame, del politicume, del giornalistume un tanto al chilo. E soprattutto, l’ingrediente fondamentale per fare di questa storia di italiani, baffo nero, mandolino, che te serve?, un film record di incassi: la foia del tifoso.

Chi scrive questo pezzo lo aveva già sperimentato di persona durante il mitologico processo di Calciopoli del 2006 e lo sta rivedendo in queste ore. Voi credete che a qualcuno dei malati di calcio e dei giornalisti al seguito - e sul servilismo e la tifoseria dei giornalisti sportivi ci sarebbero da scrivere interi volumi… - interessi qualcosa delle indagini, delle prove dell’accusa, delle tesi della difesa, delle garanzie degli indagati, della segretezza degli atti, insomma, della notizia in quanto tale e, quindi, della verità? No, non interessa a nessuno. Ma davvero a nessuno. Anche in questo caso, e sarà peggio se dovesse intravedersi la pistola fumante in grado di incastrare il mandante, della realtà non interessa a nessuno. L’Italia pallonara si è già divisa in due branchi ululanti e schiumanti: quello del «vergogna! complotto! toghe rosse! giù le mani dai nostri scudetti conquistati sul campo!» e quell’altro del «maiali! ladri! farabutti! quand’è che ri-schiaffano la Juve in serie B?».

Fidatevi, proprio come il Gassman che se ne sbatte di moglie e figli indigenti pur di sbracare e berciare e stravaccare all’Olimpico non c’è n’è uno che sia uno che in questa vicenda mantenga freddezza e integrità, dando il giusto peso alle cose. Non c’è un tifoso juventino su nove milioni che starà ragionando sul fatto che sì, in effetti, se Paratici e Nedved e Agnelli avessero organizzato una truffa e un concorso in corruzione per far passare l’esame al bomber allora giustamente la Juventus dovrebbe esser condannata e retrocessa. Trovatene uno - uno solo! - e gli regaliamo un’auto aziendale de “La Provincia”. E allo stesso modo, non c’è un tifoso interista su cinque milioni e uno milanista su altri cinque milioni e della Roma e della Fiorentina eccetera che starà ragionando sul fatto che sì, in effetti, se non si prova un collegamento diretto tra la porcata dell’Università di Perugia e la squadra più detestata d’Italia è inconcepibile che venga condannata: perché la Juventus deve essere condannata a prescindere? perché dicono tutti che sia un covo di banditi? Trovatene uno - uno solo! - e gli regaliamo l’auto aziendale del direttore de “La Provincia”.

Non è un’indagine, è una caccia all’uomo con la bava alla bocca, un trionfo dell’odio, della vendetta, del livore, che tanti commentatori - alcuni in gamba, il resto tromboni di valore europeo - stigmatizzano con il ditino alzato ed enfatici aggettivi, ma che, in fondo, forse non è così negativa. Se noi italiani medi scarichiamo tutta la nostra aggressività latente e inespressa, le nostre frustrazioni, le nostre ire funeste sul pallone, se riusciamo a tirare in quella sede lo sciacquone dei nostri veleni, forse eviteremo di andare a casa e picchiare i bambini dopo una giornata passata a prendere ordini da quel cretino del capoufficio. Tornare allo stato brado una volta a settimana può rivelarsi una saggia terapia.

@DiegoMinonzio

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