Una doppia Pasqua
dopo questo calvario

Dal balcone di casa lo sguardo si protende sul lago, sulla città affacciata alle sue acque, sui monti che disegnano la corona – un nome che oggi ci atterrisce – di un paesaggio di rara bellezza.

Ma subito si ritrae, turbato e spento, senza più la ammirazione e la gioia di sempre. Qualcosa, nel profondo, è cambiato.

Lo specchio di acqua che ho davanti è calmo come non mai; e su di esso spettralmente si riverberano i profili dei monti.

Ma sono le acque stesse del lago che mi appaiono senza vita, non più solcate da natanti o da idrovolanti volteggianti; neppure è bordeggiato da un solitario pescatore.

È un panorama fermo, immobile e addormentato, come fosse una cartolina, senza un qualsiasi soffio vitale: nessun fruscio di acque solcate o rombo di motori; nessuna vela in manovra; nessun segno di presenza umana anche sulle rive.

È così che vedo oggi Como e il suo lago: niente più di un quadro.

Anche l’atmosfera è particolare, anzi strana, come è strano il silenzio che mi circonda.

Un grande, immenso e nuovo silenzio, che però non rilassa e quasi inquieta perché viene rotto soltanto dal risalire, in convalle, del suono delle campane e da quello delle sirene delle ambulanze.

I rintocchi delle campane non risuonano più per messe, funerali, novene e rosari; scandiscono solo il passare delle ore e delle mezze ore in una dolente assenza di gente, funzioni, musiche, canti ed orazioni.

Le sirene hanno come un tempo il sinistro suono che attanaglia cuori già paurosi.

È vero: la primavera è arrivata.

Ma non c’è aria di primavera: siamo chiusi in casa più che non fosse inverno (e non tutti hanno un balcone), e tutto quello che possiamo fare è aprire una finestra.

Ma è una finestra sul silenzio, poiché le strade sono deserte come non mai, come quando gli uomini ancora non c’erano; ed ora che le città hanno costruito non possono più non dico abitarle, ma viverle.

Un silenzio che avvolge lago e città e ti scende dentro, fatto di paura e di attesa.

Paura per quello che senti, che leggi e che vedi; attesa per quello che può accadere a te, ai tuoi, alla città, al Paese, in questo maledetto spazio nuovo e sconosciuto in cui ti senti buttato al tempo del coronavirus.

Un turbine che ha spazzato via certezze e sicurezze che pensavamo conquiste definitive.

Hemingway in un suo famoso libro ha lasciato scritto di non mandare mai a chiedere per chi suona la campana, perché la campana suona per tutti, anche per te.

Allora era la guerra, ma lo siamo anche oggi in guerra, seppure diversa.

Eppure io sono certo che da questa guerra usciremo presto, forse molto presto (e le avvisaglie già si intravedono): dopo questo calvario di oggi io mi aspetto una Pasqua di risurrezione doppia, del Cristo e dell’uomo.

Torneranno le campane festanti e la gente in chiesa, con i riti, i canti e le orazioni; cesseremo di avere davanti una città metafisica e vuota come un quadro di De Chirico.

Di più: anche noi potremo diventare migliori.

La storia in genere, e quella italiana in particolare, mostra come siano le temperie e le difficoltà, soprattutto le più gravi e dolorose – se affrontate con coraggio e spirito di sacrificio – a rendere l’uomo, e il suo animo, più forte ed anche umanamente più elevato.

Anche per questo ce la faremo.

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