Dem Usa: la sfida
a Trump parte male

Son passati appena tre anni ma le campagne presidenziali degli Stati Uniti sembrano voler riavvolgere la storia. Siamo passati dagli hacker russi che avrebbero fatto vincere Donald Trump con trucchi incredibili (2016) alle primarie democratiche che, pronti via, si incartano su una qualunque app (2020, ieri), tipo quelle che girano senza problemi su ogni telefonino. Risultato: un giorno e una notte a cercare di capire quale dei candidati democratici avesse prevalso nello Iowa, dove sono in palio 41 delegati (saranno poi loro a scegliere lo sfidante) e una colossale figuraccia del partito stesso, di cui i portavoce di Donald Trump si sono subito fatti beffe. Uniche certezze: bene i candidati radicali come Bernie Sanders o Elizabeth Warren, che vogliono spostare «a sinistra» (qualunque cosa ciò significhi negli Usa) il Partito; male Joe Biden, ex vice di Barack Obama e presunto capofila dei moderati convinti che la gara presidenziale si vinca tenendosi al centro dello schieramento politico.

Il punto vero della questione, in effetti, è proprio questo. È quasi certo che abbiano ragione i sostenitori di Biden. Gli ultimi due presidenti democratici, Bill Clinton e Barack Obama, arrivarono alla Casa Bianca con piattaforme politiche che evitavano accuratamente di enfatizzare il ruolo dello Stato. E tutti ricordano quanto costò a Obama, in termini di capitale politico, la cosiddetta ObamaCare, la rivoluzionaria riforma del sistema sanitario che garantì a 32 milioni di cittadini il diritto all’assistenza medica di cui prima erano in pratica privi.

Allo stesso modo, però, è chiaro che Biden non ha il carisma per trascinare dalla propria parte gli elettori democratici, soprattutto quelli più giovani, che chiedono un cambiamento di rotta netto e inequivocabile rispetto al passato. E forse nemmeno quello per convincere gli elettori meno giovani e meno impetuosi.

Tutto questo si vedrà, la corsa è appena cominciata. E qualcosa in più capiremo dopo il Super Tuesday del 3 marzo, giorno in cui i democratici voteranno in tredici Stati e, soprattutto, giorno in cui verranno misurate le ambizioni del miliardario nonché sindaco di New York Michael Bloomberg. Il tycoon dell’informazione economica ha ignorato i 155 delegati assegnati dalle quattro primarie di febbraio (Iowa, New Hampshire, Nevada e Carolina del Sud) per concentrarsi sul bersaglio grosso. La sola California assegna 415 delegati, più del 10% del totale. E in quello Stato Bloomberg ha già speso 35 milioni di dollari in spot elettorali. Se fallisse nel Super Tuesday, Bloomberg dovrebbe abbandonare la corsa. Ma se ottenesse un buon risultato, sarebbe difficile per il Partito Democratico continuare a sostenere Biden. Il vero candidato moderato sarebbe Bloomberg.

Una cosa risulta però evidente. Il Partito Democratico farà di tutto per non doversi affidare a personaggi divisivi, almeno per i gusti politici degli americani, come Sanders o la Warren. E sarà bene ricordare che all’origine del cosiddetto Russiagate ci furono le mail, trafugate dagli hacker e pubblicate da Wikileaks, che dimostravano come la dirigenza democratica facesse di tutto per danneggiare Sanders e favorire Hillary Clinton, che ne pativa la concorrenza ed era la candidata di bandiera del partito.

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