Il voto per il Colle
e i “tengo famiglia”

Adesso pare che abbiano trovato il sistema di aggirare la legge e garantire comunque la pensione ai parlamentari prima della scadenza dei quattro anni. Altrimenti, l’atto più alto e nobile della politica istituzionale, l’elezione del presidente del Consiglio sarebbe stato dominato da quello slogan inventato dal genio di Leo Longanesi per descrivere il costume degli italiani: “Tengo famiglia”. Già, perché quelli che volevano “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” lo hanno assaggiato e trovato alla fine più che appetitoso. E comunque sempre migliore di quel “pane e cicoria” con cui gran parte di loro si era alimentato e che rischiavano di ritrovarsi nel piatto.

Almeno l’ex ministro, ora deputato, Vincenzo Spadafora ha avuto il coraggio di ammetterlo, facendo un altro outing al microfono di Simone Spezie su Radio 24: “C’è una volontà prevalente del Parlamento ad arrivare a fine legislatura per non lasciare incompiute le cose avviate”. Vera la prima parte, un po’ meno la seconda, ma tant’è che questa, almeno prima del “giochetto” costruito dagli uffici legislativi di Camera e Senato era la vera ragione ostativa per SuperMario Draghi vestito con il mantello quirinalizio. Perché il premier avrebbe dovuto lasciare, ovviamente, palazzo Chigi e sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, trovare un sostituto all’altezza e in grado di tenere insieme la grande e sempre più sfarinata e litigiosa maggioranza di governo. Da qui l’inevitabile approdo alle elezioni invocato per ovvi motivi da Giorgia Meloni (che non a caso ha impallinato il suo alleato Berlusconi per il Colle) e forse, sotto sotto, pure da Enrico Letta forte dei sondaggi e della necessità di nuovi gruppi parlamentari di impronta meno renziana rispetto a quelli che si è ritrovato.

Se le peggiori elezioni del capo dello Stato del passato furono prima quella di Giovanni Leone con uno stillicidio di scrutini che si stavano protraendo fino al Natale del 1971 a causa delle lacerazioni democristiane e poi quella di Oscar Luigi Scalfaro nel maggio 1992, risolta solo per il tritolo piazzato sotto l’autostrada a Capaci, quella ventura rischia di conquistare il podio. Perché non si può scegliere la più importante carica politica del paese con il condizionamento delle pensioni di coloro che stanno vivendo la loro prima legislatura e, nonostante i “Vaffa” e i proclami hanno ceduto a quel fascino che Roma ha appreso millenni fa da Atene che conquistò il suo dominatore con le finte aquile recanti la sigla “S.p.q.r.”. Dall’uno vale uno grillino, all’io so io e voi nun… del quasi omonimo marchese interpretato da Alberto Sordi, il passo è breve. E comunque per la prima volta, come ci ricordano quasi ogni giorno gli “ex” della Prima Repubblica intervistati dai quotidiani nazionali, si va alla scelta del capo dello Stato senza che nessuno abbia una strategia politica, anche perché incapace di elaborarla. Magari a salvare capre e cavoli (termini utilizzabili anche al di fuori della metafora) potrebbe pensarci il Covid che, con la rimonta in atto, costringerebbe Sergio Mattarella a bere l’amaro calice del bis e lasciare Mario Draghi dove sta, anche se, ultimamente e a causa dei partiti che lo sostengono, sempre meno volentieri.

Forse sarebbe davvero il momento di mettere mano a una riforma dell’assetto istituzionale. Con un Parlamento sempre più debole e povero e non solo, dalla prossima legislatura, sotto il profilo numerico, si potrebbe davvero prendere atto che esiste un semipresidenzialismo “de facto” e adeguare istituzioni e Costituzione. Gli scrupoli di coloro che redassero la “Carta” e scelsero l’elezione di secondo grado per il presidente della Repubblica, erano quelli di evitare, dopo vent’anni di dittatura, derive plebiscitarie utilizzando il bilancino nel rapporto tra i poteri dello Stato. Una situazione che oggi, bisogna avere il coraggio di dirlo, è superata. E l’elezione diretta del Capo dello Stato, valutata e abortita in tante bicamerali potrebbe avere anche un suo perché. Nell’attesa prepariamoci a mesi di “suk” della politica il cui esito è ancora del tutto imprecisato.

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