«Io passo e chiudo con il Lombardia. È stato bellissimo»

Il patron Vegni: ««Como deve credere di più in questo evento. Io mio eroe? Bartoli»

Nell’era dello sport business, Mauro Vegni è riuscito a rappresentare, nel mondo del ciclismo, ancora una volta, quel tocco di umanità necessario per una disciplina così ancora votata alla sofferenza. CentoCantù e il Cc Canturino ci ha regalato una serata con il grande patron Rcs, alla Canottieri Lario, per quello che è stato anche un po’ il suo commiato. Dal 28 febbraio sarà in pensione. E dunque, quello uscito, un po’ dalle domande del nostro Edoardo Ceriani che ha condotto la serata nell’incontro pubblico, un po’ dalle confessioni fatte a tavola, è stato il suo prezioso testamento. Probabilmente i primo di una lunga serie.

Vegni, davvero va in pensione?

È il momento. E se devo aggiungere una cosa, purtroppo mi sembra che lo sport abbia virato troppo sul business. Io ho sempre dato importanza ai valori dello sport, e dunque, al di là dell’aspetto anagrafico, forse è giusto che io mi faccia da parte.

L’erede di Torriani, di Castellano... Come si è sentito nei panni del... Papa del ciclismo?

Di Papa ce n’era solo uno, ed era Vincenzo Torriani. Perché lui era il patron vero, padrone di se stesso, mentre io devo rispondere a una azienda. Si diceva davvero che, dopo quello del Papa, il suo fosse il mezzo busto autotrasportato più famoso del mondo. E infatti sembrava benedire al folla, quando passava nelle tappe affollate. Era anche un grande venditore. Poi c’è stato Castellano, che era un grande appassionato, e anche lui innamorato dell’ammiraglia.

Un palcoscenico...

Io invece l’ammiraglia vissuta come loro, non l’ho mai amata. Anche perché l’organizzazione è cambiata e hai tutto sotto mano senza doverti esporre così.

Vegni costretto a prendere decisioni scomode nell’arco di pochi minuti, in diretta tv: tappe annullate, accorciate... Quanto è stato difficile?

Ci sono molteplici interessi, e in pochi minuti devi tenere presenti gli interessi dell’azienda, degli sponsor, delle autorità locali, dei corridori, degli spettatori, che erano quelli che mi venivano sempre in mente per primi: gente che magari prende un giorno di ferie in camper e aspetta tutto il giorno di vedere passare la corsa. Però mi porto dietro un consiglio?

Di chi?

Franco Mealli, il mio vero maestro, che mi prese sotto la sua ala quando smisi di fare il calciatore e mi guidò nell’organizzazione.

Calciatore?

Sì, anche nell’Arezzo. Ma smisi presto.

Dunque Mealli.

Lui era il patron inventore della Tirreno-Adriatico. Mi disse: devi sempre decidere e non titubare. Magari sbagli, ma l’incertezza è peggio.

Dunque?

La bufera a Livigno, la neve alla Milano-Sanremo, le strade scivolose, i cambi di percorso: momenti ricchi di adrenalina, ma ne siamo sempre usciti, anche per per merito di una squadra coesa, di cui fa parte Giusy Morelli che vedete accanto a me, sempre pronta a intervenire.

Il momento più difficile?

Senza dubbio la morte di Wouter Weylandt al Giro del 2011. Uno strazio. Conosci questi ragazzi, a volte crei anche confidenza, e poi da un momento all’altro non ci sono più. Poi è successa una cosa...

Dica.

Wouter aveva vinto l’anno prima una tappa del Giro in Olanda e un mese prima dell’incidente venimmo chiamati dall’autorità a piazzare una targa dove Wouter aveva vinto, a Middelburg. Vidi quell’omaggio e dissi, accidenti sembra un omaggio funebre... Un mese dopo ci fu l’incidente. Terribile.

Ma ci sono stati i momenti belli.

Ah, è stato bellissimo. Innanzitutto sono orgoglioso di aver lavorato alla scoperta di luoghi incantevoli. Lo sapete che le tv di Cina e Giappone comprano i diritti tv del Giro, non tanto per la corsa, ma per vedere una specie di documentario sulle bellezze d’Italia?

Come si fa a scoprire luoghi e salite nascoste?

Con le conoscenze, i contatti umani, la presenza sul territorio e la collaborazione con quei fenomeni delle società locali, che sono un tramite fondamentale con i territori. Senza di loro il Giro non esisterebbe. E così ti portano a vedere salite sconosciute o posti incantevoli. Qualche volta ho dovuto dire di no per la sicurezza, tipo la discesa dal Gavia, terribile. La sicurezza prima di tutto. Quando aspetti di sapere se tutti i corridori sono arrivati in fondo, è un momento emotivamente faticoso.

Un momento emozionante?

Beh, l’incontro della corsa con il Papa, il passaggio dai giardini Vaticani. O la partenza da Gerusalemme.

Lei ha portato il Giro a partire da l’estero.

Necessario, perché il ciclismo ha un giro di affari ancora molto inferiore ad altri sport di questo livello. Basta guardare i diritti tv. Andava esportato.

Il Lombardia.

A proposito di sicurezza. La mia versione preferita era quella con la Civiglio in discesa, ma era un po’ estrema. Però il Lombardia, sia l’arrivo a Bergamo che quello a Como, è bellissimo.

Se non fosse caduto uno dello spessore di Evenepoel, si sarebbe cancellata ugualmente la discesa di Nesso?

Beh, certo la caduta di Remco ha fatto scalpore, per i modi e la gravità, perché era lui. Ma era una discesa sotto esame da tempo, c ’erano state cadute violente anche prima.

Lei con Como ha dovuto anche battagliare. Cosa pensa del rapporto tra questa città e la corsa?

Io dico una cosa: quando mi capita, in qualsiasi posto, di sentire gente che chiede che corsa passa di lì magari due giorni dopo, significa che il territorio non ha fatto abbastanza. Avere una corsa come il Lombardia non è solo firmare il contratto, ma serve un lavoro per valorizzare l’evento sul territorio. In questo, Como fa ancora un po’ fatica. A livello istituzionale deve innamorarsi di più dell’evento, e sono aspetti che ho vissuto con tutte le amministrazioni con cui ho avuto a che fare.

Corridore preferito?

Forse vi stupirò, ma dico Michele Bartoli per la maniera di stare in sella. Bellissimo da vedere.

Ci vediamo al Lombardia?

Sarò più rilassato. Magari vado al pasta party di Cento Cantù alla Gran Fondo.

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