Allarme cinghiali in provincia
Como caccia il 30% di quelli lombardi

Nel 2019 abbattuti 1625 sui 5802 della regione - La proliferazione causa danni alle colture e incidenti ma i controlli sulla fauna sono affidati a 10 soli agenti

L’economia circolare del cinghiale non è virtuosa ma certamente è in crescita, almeno dal punto di vista del cinghiale, che prolifera. Tanto che la sua presenza provoca allarme per l’aumento dei danni alle coltivazioni.

Raro nel comasco come specie autoctona, fu negli anni ’70 e ’80 che il cinghiale cominciò ad essere immesso in libertà, abusivamente, a scopo venatorio. È evidente che la cosa scappò di mano.

Un po’ perché natura volle, un po’ perché i predatori naturali sono in sproporzionata minoranza, un po’ per l’abbandono della cura di boschi e prati che invece facevano da “cintura di distanziamento”, per intenderci. Ora, nonostante la sempre maggiore pressione venatoria, il numero degli ungulati, intesi cervi e cinghiali, è invece sempre più alto per la densità agroforestale, che non è quella naturale ormai persa, ma «è quella che dovremmo mantenere per evitare che specie selvatiche possano generare problemi non sostenibili alle attività umane», spiega Marco Testa, comandante della Polizia provinciale a cui spetta, tra il resto, la vigilanza ittico-venatoria su delega della Regione.

Il piano faunistico che stabilisce quale dev’essere la densità agroforestale a cui si fa riferimento a Como è relativo al 2011, redatto dalla Provincia prima che fossero ridotte le sue funzioni con il decreto Delrio del 2014, ed è a partire da quello che oggi si fanno le considerazioni.

«Era previsto ci fossero poco più di 500 cervi in Alto Lario e siamo a tre volte tanto, per esempio - cita i numeri a memoria il comandate Testa - Il cinghiale era stata considerata specie non desiderabile quindi da limitare, ma si è dovuto prendere atto di una sua ampia diffusione».

Le ragioni sono diverse e non del tutto note: la poca vigilanza e i rifiuti urbani lasciati sull’uscio, scarsa assunzione di responsabilità collettiva e condivisa tra i diversi soggetti, dagli ambientalisti agli agricoltori ai cacciatori agli animalisti, come invece raccomanda Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) che cita proprio tutti questi attori.

Intanto l’attività venatoria di anno in anno è in aumento. Nel 2019 sono stati abbattuti in Lombardia 5.802 cinghiali, 700 in più rispetto all’anno passato.

A Como sono stati 1.625 i capi abbattuti su una popolazione che oscilla attorno ai 2500. Oltre la metà, quindi, è finita nei carnieri.

Le carni, dopo i dovuti controlli, possono essere vendute ai ristoranti per una cifra tra i 5 e i 7 euro al chilo. E il problema non si risolve, anzi.

La nota dolente è il depotenziamento del corpo di Polizia Provinciale che oggi può contare su una decina di agenti di vigilanza ittico-venatoria, un quinto di quelli che un territorio come il nostro richiederebbe. Da pochi giorni Regione Lombardia ha aperto per la Provincia la possibilità di fare concorsi, si cercheranno giovani appassionati e competenti.

Sono solo loro che possono effettuare quei prelievi di controllo numerico sul cinghiale incisivi sulla popolazione, in tempi, aree e con strumenti che sono esclusivi dell’ente pubblico. All’epoca la Polizia Provinciale è arrivata a contare una trentina di agenti e poteva occuparsi direttamente anche dei censimenti.

Ora coordina e sovrintende questa delicatissima funzione delegata a cacciatori volontari che supportano anche gli abbattimenti selettivi. I dati del censimento vengono poi trasferiti a Regione Lombardia e analizzati da Ispra che stabilisce i limiti di prelievo in un anno, suddivisi per specie.

L’indicazione ridiscende la filiera burocratica e torna ai cacciatori ai quali viene assegnato un numero di capi preciso, ma se nella stagione gli abbattimenti non sono esauriti, i capi “liberi” vengono riassegnati.

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