Delitto di Rebbio, i perché della condanna: «Spinto dalla rabbia verso la collettività»

Le motivazioni Secondo il giudice Omar Querenzi si sentiva respinto e voleva vendicarsi - Riconosciuta la capacità di intendere dell’uomo, che dovrà scontare 20 anni di carcere

Il movente dell’omicidio è da ricercare nel «desiderio di vendetta e di farla pagare alla collettività che lo aveva respinto», movente che è stato anche il «cemento delle azioni criminose dell’imputato».

Una «rabbia rivendicativa», «scaricata contro persone deboli, ammettendo solo una volta fermato gesti che era certo di aver compiuto in presenza di altre persone», negando però quelli in cui «poteva immaginare non avessero assistito testimoni».

Con queste parole il giudice Massimo Mercaldo ha motivato la condanna di Omar Querenzi (33 anni, di Albiolo) alla pena di 20 anni di carcere per l’omicidio di Giuseppe Mazza, nato a Mantello in Valtellina ma con una vita trascorsa tra Rebbio e Breccia. Delitto avvenuto in via Giussani a Como l’11 agosto 2022, mentre la vittima si trovava all’interno della propria auto.

Il processo si era svolto con il rito abbreviato. L’imputato era chiamato a rispondere anche del tentato omicidio di un uomo cui aveva chiesto una informazione e dell’aggressione ad altri due bambini, uno avvicinato nei pressi dell’ospedale Sant’Anna da qui Querenzi proprio quella mattina era stato dimesso (contro il suo volere). E proprio la mancata conferma del ricovero, secondo il giudice, avrebbero fatto nascere quel sentimento di rivendicazione, «sentendosi respinto», che avrebbe innescato la devastante reazione in un giovane che già soffriva di disturbi.

Mazza, vittima innocente di questa azione criminale, fu colpito «con un movimento rapido, mentre si trovava sul sedile della propri auto», colto di sorpresa e «di spalle». «Non vi sono segni che provano un tentativo di difesa» spiega il giudice.

Nel processo era stata dura la battaglia tra accusa e difesa sulla capacità di intendere, che per i legali di Querenzi era fortemente scemata e non piena. Per il giudice invece l’imputato si trovava in «condizioni di alterazione e agitazione psicofisica» senza che si potesse parlare «di una sua alterazione nella sua capacità di effettuare un corretto esame di realtà». Era in una «condizione da astinenza da sostanze stupefacenti e in stress emotivo» per la dimissione dall’ospedale, e per questo avrebbe «dato sfogo (in una sorta di corto circuito) alla sua rabbia rivendicativa». Su tali basi, concludono le motivazioni, «si può escludere che Querenzi si trovasse in una condizione di grave o acuto scompenso della patologia psichiatrica da cui è affetto» ricordando come la stessa mattinata fosse stato esaminato dai medici dell’ospedale «che non avevano rilevato alcun tipo di sintomatologia che potesse far pensare ad una incapacità».

Insomma, i testimoni che poi lo descrissero confuso non possono per il giudice «inficiare soggetti specializzati e che svolgono attività diagnostica di mestiere». La difesa invece, con gli avvocati Pasquale Saggiomo e Denise Canu, aveva a lungo battagliato proprio su questi elementi, sostenendo lo stato di alterazione psicofisica dovuta in buona parte alla «grave intossicazione da abuso di sostanze stupefacenti» ma anche alle patologie psichiche aventi caratteristiche tali da farle inquadrare in vere e proprie psicosi.

La difesa aveva anche puntato il dito sulla recidiva, visto che i trascorsi giudiziari dell’imputato erano «risalenti nel tempo, ben dieci anni prima, e ascrivibili solo al contesto familiare».

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