«I pazienti si sentono soli
Non riesco a non abbracciarli»

Marco Buono, operatore socio sanitario del Sant’Anna: «Questa esperienza mi ha cambiato la vita»

Quando entro in una stanza e i pazienti, soprattutto i più anziani, mi sorridono e allungano una mano per cercare un contatto, io non ce la faccio a non abbracciarli». Empatia, sorrisi e gentilezza come medicine per sconfiggere, se non il virus, almeno la solitudine che il Covid provoca.

Marco Buono, fino a metà marzo, lavorava come oss (operatore socio sanitario) all’ospedale di Cantù. Poi, quando è scoppiata l’emergenza sanitaria e al Sant’Anna c’era urgente bisogno di personale per scongiurare il collasso, si è offerto volontario: «Era stata scelta una collega più anziana, ma essendo un reparto critico mi sono offerto di sostituirla. E così da poco meno di un mese lavoro nel reparto subintensivo Covid».

Nella sua voce c’è tutto l’entusiasmo e tutta l’energia dei suoi 26 anni: «Quando mi sono trasferito ho deciso di cercare un alloggio per non dover tornare a casa dai miei genitori, così da non metterli in pericolo. Dopotutto la paura più grossa è proprio quella del contagio: lavoriamo protetti, ma le protezioni non escludono del tutto il rischio». Così «io e un collega infermiere, Matteo Gatti, ci siamo messi a cercare una sistemazione e gentilmente ci è stato offerto gratuitamente un b&b in viale Geno».

In reparto i colleghi lo chiamano “mago” (ed è il nome che gli viene scritto con il pennarello sulla tuta antivirus del giorno): «La situazione ora? La settimana scorsa pensavamo a un miglioramento, perché finalmente si erano liberati tanti posti letto. Da qualche giorno però, sono aumentati molto i pazienti più anziani ed il reparto è di nuovo pieno». Marco Buono, e i suoi colleghi oss, fanno parte di quel personale sanitario maggiormente a contatto con i contagiati ricoverati: «Il mio compito è proprio l’assistenza del paziente, soddisfare i bisogni primari. Poi diamo una mano agli infermieri nell’analisi dei parametri vitali, ad esempio a controllare il livello di ossigeno, i saturimetri. Ma nonostante le tute, le mascherine, le misure di sicurezza, ancora io e i miei colleghi riusciamo a mantenere un rapporto stretto con i pazienti».

E siccome Marco, per sua stessa ammissione (oltre che per questioni anagrafiche) è «l’informatico del reparto», gli è stato affidato un compito che a lui sta particolarmente a cuore: «Forse la parte più bella del mio lavoro è quando, con il tablet aziendale, aiuto i pazienti a fare le videochiamate a casa. Chiamate a sorpresa e, ogni volta, è un’emozione enorme».

Nonni che tornano a vedere i nipotini, genitori che possono salutare i figli: «C’è sempre una grande commozione, è inevitabile. E anche per noi è un momento molto forte». In reparto sono una cinquantina i pazienti ricoverati, ma pian piano si cerca di concedere a tutti la possibilità di vedere i proprio cari a casa.

«Ricordo, un giorno, un paziente che mi ha chiesto di poter parlare con suo fratello che sta in Argentina e che non sentiva da tantissimo tempo. All’inizio non l’ha neppure riconosciuto, poi entrambi si sono commossi». S’intuisce un sorriso, dall’altro capo del telefono.

Da un mese la vita di Marco e del suo collega e coinquilino Matteo è scandita esclusivamente dai ritmi di lavoro. «I turni? Dipende: lavoro anche 10 ore al giorno. E stare tutto quel tempo nella tuta è tremendo: io sudo terribilmente». Sul fronte dei presidi di autoprotezione «non sono mai mancati. Anche se qualche volta, magari, ci siamo dovuti arrangiare con le sovrascarpe usando sacchi della spazzatura».

Mezz'ora per vestirsi, altrettanto a fine turno per togliersi di dosso gli abiti contaminati e fare la doccia. Poi di nuovo a casa. «Ma non si stacca mai, finiamo sempre a parlare di lavoro». E ti viene da pensare che Marco ha 26 anni e che questa è l’età delle feste, degli aperitivi, dei giri in centro con gli amici: «Non ricordo neppure più che sapore abbia uno spritz ormai - scherza Marco - La fidanzata? Si chiama Helen e sono due mesi che non la vedo. Lei è più preoccupata di me per la mia salute, ma so che è felice di quello che sto facendo».

E il pensiero torna subito ai pazienti, soprattutto ai più anziani: «Quando al mattino li svegliamo e si trovano davanti noi tutti bardati, quasi si spaventano. È difficile regalare empatia, dentro queste tute. Ma oltre la malattia c’è il lato umano e così, quando ci fanno un sorriso, noi non riusciamo a non abbracciarli, non rinunciamo a stringere loro la mano».

Anche perché, quando finisci e torni a casa, quegli abbracci, quegli sguardi, quelle mani strette te le porti con te: «È un’esperienza che ti cambia la vita, tanto umanamente quanto professionalmente. È bella tosta» esclama con la schiettezza e la chiarezza della giovane età.

«La mia testa per ora è concentrata tutta sul lavoro, perché so che se lascio troppo spazio alle emozioni rischio di cadere e farmi travolgere. È passato un mese, ma sono ancora molto motivato e cerco sempre di raggiungere l’obiettivo». E qual è? «Non ammalarmi e soprattutto aiutare più persone possibile a guarire».

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