Riscoprire Aldani, l’Asimov italiano

Fantascienza italiana a lungo snobbata in patria. Lo scrittore pavese ne ha pagato lo scotto: presente all’estero in antologie con i più grandi (da Bradbury a Lem), solo ora Mondadori colma la lacuna dedicandogli un libro importante

Lino Aldani (1926-2009) è il nostro Isaac Asimov – o Ray Bradbury, o Stanislaw Lem, o Fredric Brown, scegliete voi il nome che più amate senza paura di correre il rischio di restarne delusi. All’estero se ne sono accorti da tempo, visto che Aldani compare (insieme appunto a Asimov, Bradbury, Lem, Brown) in antologie come “The Penguin World Omnibus of Science Fiction”, autentica Bibbia della fantascienza mondiale.

In Italia per decenni Aldani ha dovuto operare in un contesto decisamente sfavorevole. La celebre battuta della Ditta Fruttero&Lucentini, «Un disco volante non può atterrare a Lucca», sintetizza bene un diffuso atteggiamento snob – soprattutto in ambienti critici ed editoriali – nei confronti della fantascienza italiana. Una veloce ricognizione a volo d’uccello sulla fantascienza italiana dell’epoca d’oro, la seconda metà del Novecento, non scioglie la questione, ma la complica: se ne ricava, infatti, l’impressione che si tratti di – è il caso di dire – un universo a sé, con i suoi scrittori celebrati (Lino Aldani appunto, ma anche Gilda Musa); le sue riviste (la più nota, la mondadoriana “Urania”, è soltanto la punta di un iceberg, formato da testate dai titoli emblematici come “Oltre il cielo”, “Futuro”, “Robot”, “Nova Sf*”); le sue case editrici (Editrice Nord, Fanucci, Solfanelli, Perseo, Delos); un suo mercato (anche estero: Aldani e Musa sono molto tradotti).

Ambiente ostile

Per la fantascienza italiana a difficoltà si è sommata difficoltà: se per molti decenni la fantascienza in sé, come genere letterario, non ha scaldato i cuori, e le menti, di critici e studiosi (al punto da non risultare nemmeno letteratura, bensì paraletteratura), tutto ciò è stato a maggior ragione ancora più stringente per la produzione italiana, tenendo soprattutto conto del fatto che la sede per eccellenza della ricezione del genere in Italia, “Urania” (rivista e poi collana editoriale), per decenni non ha preso in considerazione autori italiani – relegandoli al massimo nello spazio di una rubrica, “Il marziano in cattedra”. Così, mentre il fondatore di “Urania”, Giorgio Monicelli, fratello del più celebre regista, incoraggiava le scritture italiane con ambientazioni nostrane (la sua direzione copre l’intero arco degli anni Cinquanta), la successiva lunghissima gestione di Fruttero e Lucentini (su due decenni, 1964-1985), che ha avuto il merito di dare grande popolarità a “Urania”, ha però decretato un sostanziale ostracismo nei confronti degli scrittori italiani, i quali hanno dovuto riparare per forza di cose su altri lidi – meno noti e visibili.

Ecco il contesto in cui ha operato Aldani, insomma un ambiente alieno, si direbbe a proposito. Adesso a colmare la lacuna arriva questa antologia Urania Millemondi “La casa femmina e altri racconti” (Mondadori, 2024), con un affettuoso e complice saluto di Franco Forte e una documentatissima e meritoria introduzione di Carmine Treanni.

Qua c’è il meglio del racconto breve, forma in cui Aldani è maestro. E allora avventuriamoci nelle atmosfere spaziali della “Luna a venti braccia”, amatissimo in Russia e Polonia, e dove si parla dell’anno 2025; nelle metamorfosi animalesche di “Canis sapiens”; nei complicatissimi esami per un posto di lavoro di “Tecnocrazia integrale”; nei deliri psichici del “Kraken”; nell’universo che è ogni singolo, stupefacente racconto di questa antologia.

Trama e stile

In Aldani una trama originale e quanto mai incalzante si combina sempre con uno stile rigoroso e vivido, che non scimmiotta nessuno. È soprattutto lo stile a fare il grande scrittore.

Il campionario è vasto: dalle pittoriche descrizioni di pianeti («Titano era una distesa squallida, tappezzata da lastroni di ghiaccio fino all’orizzonte. Rari e bassissimi i ciuffi rossi di xemedrina uscivano dalle fessure, tra gli interstizi delle lastre di ghiaccio livido») ai resoconti immaginifici ma del tutto credibili di nuove tecnologie («Il Korok – così si chiamava il macchinario semovente capace di dare la caccia ad animali di qualsiasi tipo – somigliava a un enorme ragno: otto zampe metalliche e snodabili innestate su uno sferoide di circa un metro e mezzo di diametro. Era fornito di uno spettrofotometro a raggi infrarossi per la ricerca automatica della preda, di una carica praticamente inesauribile e di un paralizzatore neuronico con cui immobilizzava l’animale al termine dell’inseguimento»), ai profili caratteriali degni dello specillo morale di un filosofo («sbirciò l’autista. Tipo comune. Occhi vigili, mento prominente, mani grosse e poco curate che uscivano dalle maniche di una giacca di cuoio plastificato forse un po’ piccola per la sua taglia. Apparteneva alla categoria degli autisti loquaci, vera calamità per i passeggeri taciturni»), fino a rese più naturalistiche («Ho visto sulla piarda una grossa catasta di robinie coperta con fascine di lisca. La baracca è piccola, la tua vecchia stufa di ghisa può riscaldarla in un attimo. Ho anche visto che hai piantato cavoli e patate, vicino alla viottola, nel punto più solatio»).

Aldani leggeva con profitto non soltanto autori di fantascienza, ma anche, ad esempio, Jean-Paul Sartre, o autori oggi poco letti come Vicente Blasco Ibáñez – e si sente.

Un mondo poetico

Carmine Treanni lo dice benissimo e a noi non resta che riportare le sue parole, sottoscrivendole in pieno: «Lino Aldani resta senza dubbio il più importante esponente della fantascienza italiana, uno scrittore che ha saputo raccontare il suo personale mondo poetico, che ha trasceso a sua volta i meccanismi della letteratura fantastica e fantascientifica per parlare all’uomo e dell’uomo, della sua esistenza, del suo ruolo (o non ruolo) in una società che è sempre più alienante e che lo rende in qualche modo schiavo di se stesso. Il fantastico e la fantascienza sono stati per lo scrittore pavese la chiave di lettura di questo stato personale e sociale dell’uomo moderno e per questo motivo le sue storie sono universali».

Cari Fruttero e Lucentini, cari F&L, stavolta avete torto: un disco volante può benissimo atterrare a Lucca, a Firenze, a Roma, a Torino, o – perché no? – a San Cipriano nel Pavese, lungo le tranquille (ma solo all’apparenza!) sponde del Po, e dar vita a intense e spiazzanti narrazioni. Del resto, come si dice in un racconto, «l’universo è in continua espansione».

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