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Venerdì 11 Luglio 2025
AI, un’intelligenza troppo “fuori mano”
Tecnologia La mancanza degli arti, che danno la “presa” unica sul mondo, frena l’apprendimento delle macchine. Una ricerca esamina i limiti della conoscenza digitale e le prospettive di miglioramento con i nanomateriali porosi
Anche nei confronti dell’Intelligenza Artificiale, si ripete la scissione prodotta dai mezzi di comunicazione di massa ai loro albori. Il mondo si divide tra apocalittici e integrati, tra gli ostili a tutti i costi e quanti, anche ingenuamente, ne accolgono ogni pulsione innovativa con entusiasmo.
Le due consorterie sono però accomunate da una domanda che si pone al di sopra delle valutazioni di merito. E cioè: in che cosa l’Intelligenza Artificiale, pur con le più sofisticate modalità di Deep Learning, con l’avanzamento delle Reti Neurali e oltre la frontiera dell’Agentic AI non riuscirà mai a supplire la mente umana?
Proprietà sistemiche
La risposta non apre scenari di fantascienza, ma semmai riporta all’abc dell’antropologia. In particolare, alla dimensione tattile, così decisiva nell’elaborazione delle nostre conoscenze di prima mano. Quello che fa difetto all’AI è proprio di non avere mani di carne e sangue, muscoli, nervi ben impiantati nel cervello.
Per quanto la robotica, nella sua interazione con il digitale, possa prefigurare scenari morfologici impensati, è un fatto che le mani umane siano un unicum per apprendere. Anassagora è stato il primo, tra i pensatori greci, a comprenderne il potenziale, sostenendo che «siamo intelligenti perché abbiamo mani», mentre Aristotele aveva corretto il tiro, dicendo che gli uomini hanno mani «perché sono le più intelligenti tra le creature» (De partibus animalium, IV, 10, 687 a 8-11).
Spiace dirlo ai fan della filosofia antica, ma la primogenitura del concetto va ascritta agli antichi egiziani, che per esprimere il “fare” (jrj) non usavano la mano, bensì l’occhio, a indicare la capacità intuitiva della mente quale pre-condizione di ogni agire. Un’idea formulata in modo compiuto soltanto nel 1957 da G.E.M. Anscombe, l’autrice di quel caposaldo del pensiero che è “Intenzione”.
La connessione strettissima tra l’organo percettivo che afferra la realtà - in senso reale e figurato - e la mente possiede un aspetto sistemico non ancora prerogativa delle macchine digitali.
In breve, la manualità configura il “peripersonal space” (PPS), cioè un ambiente percettivo che partecipa grandemente allo sviluppo della conoscenza del mondo, al di là della dimensione strettamente tattile, apprensiva, trasformativa propria delle mani. Conta la pelle, in tutto questo, evidentemente, ma non solo. Si tratta dell’esito di molteplici interazioni tra sistemi - mano, oggetti, ambiente - all’origine di proprietà “emergenti”.
La mente stessa, dal punto di vista sistemico, è una “emergenza”, come ha finemente tratteggiato l’acume analitico della professoressa Lucia Urbani Ulivi dell’Università di Lugano. E anche quando la mano, magari per un incidente, non c’è più, il cervello la fa percepire lo stesso (arto fantasma).
La teoria di Hubert Dreyfus
Viene da pensare a quanto preconizzato dal filosofo americano Hubert L. Dreyfus all’alba dell’Intelligenza Artificiale. Nel suo “What Computers Can’t Do: A Critique of Artificial Reason” (Quello che i computer non possono fare: una critica della ragione artificiale) sosteneva, nel 1972, che il limite insuperabile delle macchine “pensanti” consiste nella loro mancanza di corpo (“disembodiment”). Tuttavia, quello che è (forse) il maggiore limite cognitivo dell’AI resta una barriera che si può almeno in parte aggirare, in una prospettiva non paritaria con la mente umana, ma quanto meno di similarità o “quasiness”, termine caro al pensiero sistemico.
Al di là del contributo umano nell’addestramento delle macchine, mediante sofisticati sistemi di apprendimento - tra gli altri le Reti Neurali, che riprendono modelli vicini alla plasticità del cervello - i devices digitali posseggono due asset. Da un lato, il loro funzionamento, attraverso la tecnologia digitale richiede il tocco umano per attivarle.
I nanomateriali porosi
Viene dunque a strutturarsi un sistema misto, nel quale persino le emozioni, pur in maniera “quasi umana” possono essere insegnate o apprese. Dall’altro, le macchine, oltre agli algoritmi, sono costituite da materiali. E proprio nel settore della ricerca sui materiali, in particolare nei “nanomateriali porosi” si gioca non soltanto l’affinamento della struttura dei devices digitali dotati di AI. Siamo in grado di prefigurare anche un possibile avanzamento cognitivo, sia pure in una prospettiva di “quasi-knowledge” (quasi conoscenza). Sì, perché molte ricerche condotte da scienziati di vari ambiti, in modo interdisciplinare, applicate alla tecnologia AI consentirebbero di rendere gli schermi digitali (oggi in tecnologia Lcd e Oled) più sensibili. Anche in virtù di una maggiore flessibilità.
In tal modo andrebbe a configurarsi, se non un “peripersonal space”, quanto meno una speciale capacità di intercettare / filtrare input ambientali (luce, calore, risposte degli esseri animati o degli oggetti a determinati stimoli), tale da affinare la sensitività delle macchine. Una prerogativa che non darà loro una corporeità come quella umana, però ne farà crescere le potenzialità di apprendimento “processato”.
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