Da cinquant’anni la ballata dello zio Tom

Anniversari Nel 1973 il giovane Waits pubblicava “Closing time”: nessuno se ne accorse, poi però divenne un mito. Dall’epoca beatnik ai nostri giorni, il riservato cantautore Usa ha scritto pagine potenti nella storia della musica

Nel 1973 Thomas Alan Waits ha 23 anni, ma ne dimostra quasi trenta di più grazie a un look da beatnik degli anni Cinquanta. Quando pubblica “Closing time” non se ne accorge praticamente nessuno.

Riceve critiche discrete, anche se qualcuno paragona questo cantautore che sembra vivere in un passato dove il rock non è mai avvenuto, a «una versione ubriaca di Randy Newman» (Rolling Stone) e l’album sembra più un “vanity record”, una registrazione fatta per dare un contentino a un bravo autore, così bravo che gli Eagles porteranno in classifica la sua “Ol’ 55” e Tim Buckley sprecherà il suo talento con una versione troppo zuccherina di “Martha” (c’è qualcosa di più distante dalla voce di Tom di quella celestiale e acutissima di Tim?).

Non è una falsa partenza. Semplicemente il mondo non era ancora pronto per Waits e, soprattutto, viceversa. Lavoro dopo lavoro la sua ugola peggiorerà (o migliorerà, a seconda dei punti di vista) e quelle ballad struggenti e alcoliche lasceranno spazio a una forma originalissima, apprezzata dalla critica e da un pubblico di cultori, anche se... Diciamocelo piano, sottovoce, confessiamocelo come uno di quei segreti innominabili pena lo scherno collettivo, il disprezzo degli amici, il ripudio dei parenti. Ammettiamolo liberandoci da un peso che opprime lo stomaco, la schiena, le orecchie, che ci impedisce di camminare liberi come se i piedi vi fossero incatenati. Su, coraggio, scriviamolo una volta per tutte: ogni volta che Tom Waits pubblica un nuovo disco, circostanza di per sé già abbastanza rara, tutti speriamo sempre che sia pieno zeppo di belle ballate pianistiche romantiche come quelle che si trovavano su “Small changes”: il caos ordinato, il rumorismo senza limitismo, le grida dell’orco che si è pestato il martellone sul ditone son tanto belle...

Però, ogni tanto, quanto sarebbe altrettanto bello ritrovare quel vecchio zio Tom?

Il beatnik che sembrava il figlio illegittimo di Kerouac e Jean Harlow, quello che cantava le tristezze di Tom Traubert e le gioie delle ragazze del (New) Jersey, quello che gli bastavano un piano a muro, un bicchiere mezzo pieno (ma è sempre mezzo vuoto) e un buon sigaro rollato con la tecnica raccontata da Harvey Keitel in “Smoke” per farti sognare, ridere e piangere. Ma non si fuma più nei luoghi chiusi, i pianoforti sono decorazioni dei bar e se provi a suonarli ti guardano come se stessi leccando la tappezzeria e Waits si è sposato, è diventato un padre di famiglia e ha deciso, ormai tantissimi anni fa, che il ruolo di “Ballantine’s balladeer” gli stava troppo stretto.

Non è più solo, compone quasi tutte le canzoni con la sua signora, Kathleen Brennan che, a quanto dice, è colei che lo spinge a non fossilizzarsi su canzoni strappacuore con testi strappalacrime favorendo l’immagine dello spaventapasseri con la raucedine perenne, che vive in una casa grigia con i buchi sul soffitto e le pozzanghere sul pavimento. Chissà: intanto quel primo disco e gli altri capolavori degli anni Settanta non ce li toglie nessuno.

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