Dipingere tra memoria e intenzioni. Un sopralluogo nella mente del pittore

Appunti d’arte Giuliano Collina condivide il ricordo di mostre per lui decisive: Rembrandt, Modigliani e Mondrian. E oggi? Ogni giorno incomincia nello studio con il tentativo di attingere al deposito di quanto non ancora realizzato

Un po’ di quello che credevo di avere dimenticato e che invece, almeno in parte, ricordo non a proposito del mio passato intero, ma solo per ciò che si riferisce a questo mio mestiere che continua a ingombrare il mio vivere di tutti i giorni: pittura, scultura, pittori o scultori e le mostre, le gallerie d’arte e quelli che un tempo, non molto tempo fa, si chiamavano critici d’arte e che oggi invece esigono di essere definiti “storici dell’arte” (sì, ammettiamolo, critici non era elegante); come, e un po’ similmente, ma in altro modo, per la parola che vuole definire il luogo dove l’opera d’arte nasce: lo studio, il laboratorio, l’atelier?

Nessuna delle tre è all’altezza: la studio è quello degli avvocati, dei commercialisti, eccetera; il laboratorio è il luogo della chimica, delle scienze, della medicina e dei medici; e l’atelier, tanto meno, un po’ perché non appartenente alla lingua italiana e soprattutto perché è diventato patrimonio esclusivo dei sarti.

Rivelazione?

Le mostre, le grandi mostre al Palazzo Reale di Milano: tra le prime che io ricordo ci stanno, la più remota, “Rembrandt e il Seicento olandese”, poi una dedicata a una selezione del Museo di San Paolo in Brasile, seguita, dopo qualche anno, da due personali: Amedeo Modigliani e Piet Mondrian.

Di Rembrandt ho un ricordo in più: ero davvero ancora piccolo, frequentavo forse la prima o la seconda media e non ero in grado di andare da solo a Milano, così, e con mia felice sorpresa, fu il mio papà ad accompagnarmi; una giornata tutta per noi due e per Rembrandt del quale però, allora, non avevo ancora fatto conoscenza, ancora non sapevo che per apprezzare un’opera d’arte bisogna capirla, che per capirla bisogna sapere e per sapere bisogna studiare. Mi aspettavo una rivelazione, che però non venne, perché non ero preparato, pur magari godendo già un po’ della qualità di quella materia pittorica che Rembrandt aveva saputo far scintillare.

Il Seicento e poi l’Ottocento nella raccolta del Museo di San Paolo. Nella mia zucca, oggi un po’ rinsecchita, a questo proposito ci sono ancora due tele: un fiume nero, o meglio un torrente scuro per effetto di un profluvio di colori sovrapposti di Claude Monet, il più impressionista degli Impressionisti, e un ritratto di Emile Zola dipinto dal padre del Cubismo, quel Paul Cezanne che avrebbe poi nutrito lo sperimentare del giovane Picasso.

Dopo di che, ma sempre in quelle grandi sale del Palazzo Reale di Milano, due mostre personali dalle quali uscii nutrito come più non potevo, rimpinzato dallo straordinario profumo e dal delicato sapore della pittura di Amedeo Modigliani, così come, e forse anche di più, dalla ineluttabilità del procedere di Piet Mondrian, felicemente costretto, di quadro in quadro, in uno stretto sentiero lungo, in salita fino sul ciglio di una vetta da dove, ancora oggi, la sua pittura potrebbe del tutto comprendere quasi l’intero paesaggio dell’arte.

Mostre, grandi rassegne, ma anche piccole personali nelle gallerie private. E, a proposito di quanto la mia memoria ha trattenuto, mi rendo conto che allora, e non più oggi, noi giovani speranzosi abbiamo avuto tante opportunità di vedere, di conoscere, di imparare; tutto per merito delle attività dei mercanti dell’arte che, pur facendo i loro affari, divulgavano la pittura giovane e meno giovane.

Grandi mostre e piccole rassegne, tante, a riprova di quella vitalità che il secolo scorso ha saputo esibire in abbondanza e che oggi appare in calo: a me? Solo a me? Forse perché i miei anni e i miei tanti ricordi si affastellano troppo disordinati in quel deposito che è il luogo della mia memoria. Lì, la penombra è sempre più fitta e la polvere che vi si deposita è sempre più densa.

Eppure no, non sono deluso o almeno non mi pare di esserlo, se non altro perché ogni giorno, e almeno fino a oggi, ogni mattina quando il sole buca l’orizzonte e la mia finestra esplode silenziosamente, in quell’istante io ancora ho la consapevolezza che, dopo la colazione e dopo la doccia, mi aspetta, alle soglie del Monte Croce, quel grande locale (ormai un po’ troppo ingombro) dove tutti i giorni provo a rappresentare ciò che ancora sta in quel limbo dietro la mia fronte, un po’ al di sopra dei miei occhi e vicino, per quanto mi è possibile, al mio cervello: il deposito di quanto non ho ancora realizzato.Oggi è domenica, ma da domani ricomincerò a indurre in tentazione tele, colori e pennelli affinché la mia voglia superi le loro tante reticenze. Da tempo dipingo “Bandiere”, cioè il soggetto del mio fare pittura si appoggia a questo tema scelto in seguito a un momento di osservazione su quanto già avevo dipinto anni fa, le “Tovaglie”, perché potevano essere l’ultimo stadio di un processo di riduzione di tante precedenti “Nature” morte: dopo che gli oggetti rappresentati diminuivano di importanza e di numero, non restava altro che il loro supporto, proprio le tovaglie senza più niente sopra.

Così per molto tempo, fino alla consapevolezza che forse le tovaglie avrebbero potuto trovare un po’ di nuova vita se trasformate in bandiere: le stesse possibilità di sventolare, gli stessi colori, se non di più, e, per così dire, la stessa semplicità e libertà di esecuzione: poca forma, ma tanti colori, magari gettati sulla tela, anche per smentire un dato che ho sempre ritenuto implicito nel mio dipingere: privilegiare la forma nei confronti dei valori cromatici.

Stesure a smalto

Le mie due prossime bandiere potrebbero essere: la prima dedicata al cielo, al sole, all’aria e a tutto ciò che può essere luce; i suoi colori saranno due azzurri, un po’ di bianco e magari anche un po’ di oro, di quello vero in foglia, accanto a dei gialli di diversa provenienza; toni chiari, spremuti dai tubetti della Windsor e Newton sovrapposti a larghe stesure a smalto. La seconda, invece, forse non ancora del tutto presente nel mio immaginario, è però precisa nel titolo: “La bandiera delle lavandaie”. Sarà, credo, di grandi dimensioni, perché dovrà portare l’immagine di un grande lenzuolo bianco, anche lui svolazzante, ma appeso per un lato come un lenzuolo steso su un filo e fermato dalle mollette dei panni, come in un bellissimo quadro di Pellizza da Volpedo.

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