“Don Carlo” al Teatro Sociale:
«Cupa atmosfera totalitaria»

Lirica Intervista al regista Andrea Bernard, che ha scelto un’ambientazione novecentesca per l’opera di Verdi con il quale si è aperta la stagione scaligera

Il sipario della Scala di Milano si è appena chiuso sulla Prima di Stagione, con il poderoso dramma verdiano “Don Carlo” e già, questa sera, al Teatro Sociale di Como, lo stesso titolo, ma naturalmente con allestimento diverso va in scena per il programma operistico della sala comasca, nel circuito OperaLombardia. Oggi, alle 20 e domenica, alle 15:30, in replica, il pubblico potrà assistere al melodramma ambientato alla corte spagnola nel XVI secolo. (Biglietti da 60 a 17 per stasera e da 55 a 16 più prevendita per domenica. Info e acquisti su www.teatrosocialecomo.it e alla biglietteria del Teatro.). Non dobbiamo però aspettarci una ricostruzione storica tradizionale, nella messinscena firmata da Andrea Bernard, con la direzione del M° Jacopo Brusa, che guida l’Orchestra I Pomeriggi Musicali.Ce ne parla lo stesso regista, che, pur cercando il rispetto assoluto della partitura verdiana, ha voluto puntare su soluzioni più vicine a noi e meno collocate nel tempo storico remoto del XVI secolo.

Bernard, qual è la linea interpretativa che avete scelto per costruire questo “Don Carlo”?

Siamo di fronte a un’opera importante, potente, che ha cambiato la storia della musica di Verdi portandola oltre la tradizione. Tra le molteplici modalità possibili per affrontarlo, ho scelto di concentrarmi sui personaggi, per uno scavo psicologico. Per fare questo, ho cercato ispirazione anche in altri testi fondamentali.

Per esempio?

Ho trovato un prezioso aiuto in Dostoevskij che, nei Fratelli Karamazov, dedica una straordinaria sezione alla figura del Grande Inquisitore. Questo personaggio che osa accusare Cristo di aver donato agli uomini la libertà, giustifica il fatto che pochi eletti possano governare il mondo, creando nella massa l’illusione di libertà. Così vedo l’inquisitore del “Don Carlo”, che esercita un potere totalitario.

Questa lettura influenza anche le scelte in fatto di scene e costumi?

Sì. Abbiamo immaginato un’ambientazione novecentesca, quasi orwelliana, che riprende un’estetica dell’ epoca dei totalitarismi. I colori sono scuri con qualche sprazzo di tinte più vivaci. (Le scene sono di Alberto Beltrame, i costumi di Elena Beccaro ndr).

In quali spazi è ambientata la trama?

Ci troviamo nel tribunale dell’ Inquisizione, il luogo massimo del potere. Uno spazio claustrofobico, costruito in legno e “abitato” da una giuria popolare che si affaccia da alcune aperture.

In contrapposizione a questo rigore ferreo, troviamo il personaggio di Don Carlo…

Sì, erede al trono che vorrebbe essere libero di amare, ma è prigioniero di regole inossidabili.

Lo spettacolo che vedremo a Como si discosta dalla tradizione. Perché questa scelta?

Fa parte del mio stile registico non puntare mai ad uno stile “museale”, che ricostruisca nel dettaglio. Sono sempre alla ricerca di storie da raccontare, per dare al pubblico spunti di osservazione. Naturalmente nella lirica, tutto deve avvenire nel pieno rispetto della musica e anche in questo caso, Verdi sembra venirci in aiuto.

Perché?

Basta pensare ai tagli che Verdi effettua nel libretto di Schiller. Il suo lavoro è talmente innovativo – probabilmente perché il compositore fu affascinato dal linguaggio musicale di Wagner – che, nelle opere successive, Verdi dovette tornare un po’ indietro.

Parliamo dello stile che dovranno tenere i cantanti…

A loro ho chiesto verità, una fusione con i personaggi che passa attraverso piccoli dettagli, come un gioco di sguardi, gesti anche minimi. Non amo una presenza a scenica eccessivamente retorica e impostata.

Come si fondono la parte teatrale e quella musicale?

Con Brusa mi sono trovato molto bene. È un direttore intelligente, aperto a visioni nuove e anche al rischio. Abbiamo lavorato per fondere le due anime dell’opera in un unicum.

Quale approccio consiglia agli spettatori?

Mi piacerebbe che venissero in sala curiosi e disposti a lasciare andare ogni giudizio pregresso, perché questo è il vero scopo di quel rito collettivo che chiamiamo teatro.

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