Emilio Villa, il clandestino del Novecento

Profili Un ritratto del grande poeta e traduttore che ha attraversato il secolo lasciando un’impronta anticipatrice. Già precursore della neoavanguardia, vedeva nell’arte ufficiale un mero strumento di controllo e di conformismo

“La cultura che abbiamo non è più in grado di vedere il mondo, è diventata una macchina per produrre significati già morti prima di essere pronunciati. Solo il poeta che sa spezzare il linguaggio può restituire all’uomo la possibilità di guardare veramente”. Queste parole costituiscono il manifesto programmatico di Emilio Villa, oggi considerato dalla critica letteraria tra “i massimi intellettuali del secondo del Novecento”, ma al contempo quasi completamente dimenticato: escluso dalle antologie scolastiche, tranne qualche rara eccezione. Non che gli sarebbe dispiaciuto perché Emilio Villa, il “clandestino del Novecento italiano” è stato il dinamitardo di ogni accademia e di ogni canone.

Ha anticipato il sempre sopravvalutato “Gruppo ‘63”, ha preconizzato ogni avanguardia, oggi è da riscoprire perché “scrivendo del ‘900 penso all’altro”, il nostro. E qui sta la sua genialità ma anche il suo limite e il vero motivo della sua rimozione dalla cultura e dalla editoria contemporanea. La scelta di abbandonare in vita i maggiori editori italiani -che hanno avuto l’intuito di pubblicare tutte le sue prime opere- certo ha influito anche sul suo isolamento.

Biografia

Emilio Villa, nato il 14 settembre 1914, nel quartiere operaio Affori di Milano, figlio di un metalmeccanico che abbandona presto la famiglia e di una portinaia, ha frequentato il seminario, poi il Liceo Classico Parini, per poi frequentare l’“Istituto Pontificio” di Roma dove sviluppa il suo amore per l’Antico Testamento. Filologo, traduttore, poeta, Emilio Villa ha attraversato il Novecento lasciando un’impronta radicale e anticipatrice in ambiti diversi: dalla poesia visiva all’arte concettuale, dalla sperimentazione linguistica all’editoria indipendente. Villa conosceva praticamente tutte le lingue, ma era soprattutto esperto di lingue morte: non solo greco e latino, ma anche il miceneo, le lingue semitiche, l’assiro e il babilonese.

Era attentissimo alle novità dell’arte contemporanea, soprattutto a quell’arte “d’azione” che molto si confaceva alla sua idea di poesia: è stato Villa a scoprire e lanciare Alberto Burri, con cui ha poi spesso collaborato. Odiava i critici e se ne fregava del mondo editoriale: “I critici sono la merda”, scrisse in una lettera a Piero Manzoni (che avrà certamente apprezzato l’immagine metaforica...). Ha collaborato con grandi artisti internazionali come Mark Rothko o Marcel Duchamp, e con altri italiani come Mario Schifano. Traduttore dell’“Antico Testamento” e della “Odissea”, “Villadrome” (come lo “parabattezzò” Marcel Duchamp), ha inventato “la poesia distrutta”: una volta, per “pubblicare” i suoi testi, non pensò di meglio che inciderli su pietre che gettò subito nel fiume. Se la poesia di Villa rappresenta una critica radicale al linguaggio stesso, la sua riflessione sulla cultura contemporanea è altrettanto anticipatrice.

Pratica di resistenza

Villa rifiuta le concezioni borghesi della cultura e della letteratura, vedendo nell’arte ufficiale un mero strumento di controllo e di conformismo.

Per Emilio Villa la letteratura non deve assolvere ad alcuna funzione sociale o politica in senso tradizionale: piuttosto, deve essere una pratica di resistenza, un atto di denuncia nei confronti di ogni forma di omologazione. Anche qui ha previsto quella “società dei consumi” che avrebbe fatto la fortuna di Pier Paolo Pasolini.Nei suoi scritti, Villa attacca ripetutamente la superficialità della cultura di massa, la perdita di senso della società moderna e l’incapacità della poesia di rispondere a queste crisi esistenziali. E tutto questo è stato capace di sintetizzarlo in pochissime parole: “Qui caduti in un labirinto, mentre credevamo di essere giunti in fondo”.

Perché se crediamo di vedere e di aver visto il peggio degli esseri umani, viviamo in un labirinto di specchi e schermi dai quali sembra impossibile liberarsi. Come scrive in “Dichiarazioni del soldato morto”, dalla raccolta poetica “Oramai”, edito nel 1947: “La guerra è là sull’orlo di finire/ e fui soldato, pigro di patria, / maschio, mite di sentimenti, / mi sono comportato poco, anzi niente, / una minuta recluta da niente, una frasca, / minuta recluta esclusa da pietà, se tu consideri/ pietà, odio, e patria non essere in natura…”. Certo in apparenza ricorda il suo rifiuto a combattere tra le milizie fasciste (si diede alla fuga, ma catturato, fu deportato in campi di concentramento in Olanda e Germania) ma è anche la metafora del suo essere “clandestino” sfuggito al “sistema editoriale d’accatto” e da una “cultura da supermercato“.

Dopo la guerra viaggia per il mondo, dal Brasile agli Stati Uniti. Nel 1966 collabora come consulente storico al film kolossal “La Bibbia” di John Huston. Sempre in crisi di denaro, nonostante la vita precaria, firma contratti progettuali con le maggiori case editrici per poi non portarli mai a termine o pubblicarli successivamente con realtà editoriali minori. Una coerenza che ha pagato con l’isolamento. Per dieci anni la sua voce tace, dimenticato anche dagli amici muore nel 2003 in una casa di cura a Rieti. Il suo nome oggi è quasi un segreto da non pronunciare se non in conferenze accademiche e salotti intellettuali: quasi la nemesi di un uomo e artista che ha rifiutato tutta la vita di appartenere a qualsiasi istituzione culturale. Andrebbe “liberato” e fatto conoscere a tutti.

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