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Sabato 01 Novembre 2025
Fausto Valsecchi, nascere per scomparire
Profili Il ritratto di un grande poeta lariano di fine Ottocento, morto giovanissimo e mai veramente scoperto. La sua biografia è un ossimoro: un ragazzo vivo che mette in scena il nulla e si lascia inghiottire dalla parola
Ci sono poeti che nascono per gridare e poeti che nascono per scomparire. Fausto Valsecchi, nato a Lecco nel 1890, appartiene alla seconda specie: quelli che vivono in minore, che camminano sottovoce, che scrivono con la discrezione di chi sa che la parola può uccidere più del silenzio. Non è un poeta dimenticato: è un poeta mai veramente scoperto.
Valsecchi è morto a ventitré anni, annegato nel Naviglio mentre leggeva un libro. Con la sua barca si lasciò trasportare dalla corrente ed era talmente immerso nella lettura che non si avvide di una chiatta, di quelle trainate a cavallo e destinate a trasportare ghiaia. Non un incidente: una metafora. La sua biografia è un ossimoro perfetto - un ragazzo vivo che si lascia inghiottire dalla parola. Un poeta che non ha avuto il tempo di essere poeta. Ma forse proprio per questo lo è stato davvero.
“Versi e novelle”
I suoi “Versi e novelle”, pubblicate postume nel 1966, sono un pugno di cenere che profuma ancora di vita. Quattordici poesie, otto racconti, una manciata di frammenti che bastano per far intuire un talento che non voleva farsi vedere. Perché Valsecchi scrive come chi teme la luce: non per moda, non per compiacere un pubblico, ma per sopravvivere a se stesso.
Valsecchi appartiene a quella tribù sfortunata dei crepuscolari, ma non è un Gozzano che gioca con l’ironia né un Corazzini che implora pietà. È qualcosa di più segreto, di più lombardo, di più trattenuto. Nelle sue parole non c’è autocommiserazione, ma un pudore feroce. Lecco, Sondrio, Bergamo, Milano: la sua traiettoria geografica sembra un crescendo di malinconia.
Nato il 31 dicembre 1890 a Lecco dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza per poi iniziare gli studi di ragioneria al Collegio Nazionale di Sondrio, traduce Ibsen e Verlaine per la casa editrice Sonzogno, scrive per riviste come “La Lettura” e “il Mondo”.
Fausto Valsecchi scrive come si respira d’inverno: con fatica, con pudore, con il fiato corto. Nei suoi versi si sente l’odore della carta umida, il suono dell’acqua che non smette mai di cadere. È un poeta del margine, uno che non ha bisogno di avanguardia perché è già oltre: oltre l’estetismo, oltre la retorica, oltre la speranza.“Visionarie, regressive, pervase da ossessioni di morte”: così Sergio Solmi ha definito le sue poesie. Ma Valsecchi non è ossessionato dalla morte. È sedotto da essa. Nei suoi versi la morte non è fine, ma ritmo: un basso continuo che accompagna la melodia della vita. È la consapevolezza che tutto ciò che amiamo è già sul punto di sparire.
Senza pubblico
Dove Gozzano costruisce un museo dell’ironia e Corazzini un altare della malattia, Valsecchi mette in scena il nulla: una poesia senza scena, senza protagonisti, senza pubblico.
Leggerlo oggi è come ascoltare un vinile graffiato di Nick Drake o Jeff Buckley: non importa se non tutto è perfetto perché ogni graffio è una confessione. La sua lingua non suona moderna, eppure brucia: le parole si ripetono, si spengono, inciampano. È la voce di chi non vuole “essere poeta”, ma semplicemente esserci. I suoi racconti - pochi, ma straordinariamente vivi- sono l’altra metà del suo cuore. Qui Valsecchi mostra un’ironia che la poesia non gli concede. C’è qualcosa di scapigliato, quasi anarchico, nei personaggi che crea: uomini mediocri, donne disilluse, destini già segnati. Le novelle sono il suo modo di ridere della vita che lo stava già dimenticando. Piccoli scherzi al destino, scritti con la penna di chi sa che non c’è lieto fine, ma non vuole smettere di raccontare.
Fausto Valsecchi è l’anti-Futurista per eccellenza. Mentre Marinetti urlava “Uccidiamo il chiaro di luna!”, lui sussurrava: “Lasciatemi almeno l’ombra”. È il poeta del rallentamento, dell’imperfezione, del tempo che non corre. Se i Futuristi erano il punk dell’epoca, lui era il blues. La sua poesia è un assolo lento, una ballata su corde stonate, ma autentiche.
Nel suo mondo non ci sono eroi, solo uomini stanchi. Non c’è progresso, solo nostalgia. Non c’è Dio, ma la dolcezza disperata di chi ancora crede che una parola possa bastare.È un poeta senza palco, senza pubblico, ma con una voce che ancora vibra — come una chitarra dimenticata in soffitta che, nonostante la polvere, continua a suonare. Valsecchi ci ricorda che scrivere può ancora essere un atto di umiltà. Perché la sua brevità non è un limite: è una lezione. Ventitré anni bastano per capire che la poesia non salva, ma almeno consola.
Nel suo annegare nel Naviglio c’è tutto il simbolo di un’epoca: la letteratura che affoga nella propria bellezza, la parola che diventa acqua e si perde, come la giovinezza, come l’Italia prima della guerra. La sua voce arriva da lontano, ma suona ancora moderna, perché parla della cosa più contemporanea che esista: la fragilità.
Fausto Valsecchi non è un poeta “minore”. È semplicemente un poeta interrotto.E forse è proprio questa la sua grandezza: non aver avuto il tempo di sbagliare. In un Paese dove la letteratura spesso diventa mestiere, Valsecchi ci ricorda che la poesia è ancora una questione di vita o di morte. Quando si muore leggendo, non si muore mai del tutto. E Fausto Valsecchi, nel suo Naviglio di carta, è ancora lì — vivo, sommerso, e dannatamente necessario.
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