Gli “uomini cavallo” nelle vie di Calcutta

Storie La testimonianza di un fenomeno di schiavismo moderno nella capitale dello stato indiano del Bengala. Definita da secoli la “città dei risciò”, oggi il governo ha finalmente vietato i mezzi di trasporto a trazione umana

Un uomo esile ma con i polpacci robusti e i piedi nudi, che corre tra le sbarre di una carrozzella e traina con passo svelto cadenzato, accovacciato sulla quale un signore corpulento, in abiti belli, il sigaro in bocca, o una signora tutta piume e lustrini: è un’immagine che fino a poco tempo fa era una costante nelle sempre affollate strade delle città asiatiche, le cinesi in particolare, pure quelle indiane. Calcutta è stata per secoli la “città dei risciò”: questo è infatti il nome comune di siffatti veicoli a trazione umana. E’ stata questa, degli “uomini cavallo” una figura che mi ha sempre stretto il cuore quando la trovavo sui libri, sui giornali e soprattutto allorché mi è capitato di trovarmela nei miei curiosi sguardi in alcune delle mie scorribande quasi sempre solitarie in Asia e soprattutto proprio a Calcutta.

Mi ha sempre sconvolto la condizione disumana, di schiavismo moderno, la condizione di questi maratoneti di tutti i giorni, senza nessuna gloria tra le stanghe di una carrozzella per guadagnare qualche misero soldo. E fu così che molti anni fa andai a vederli da vicino, a incontrarli proprio a Calcutta infilandomi anche nella famosa bidonville raccontata da Dominique Lapierre nel suo famoso libro “La città della gioia”. Li incontrai davvero questi schiavi moderni, ancora molto numerosi sia nei dedali di viuzze dello slam, che nelle strade trafficate della metropoli.

Mi è tornata in mente questa storia perché mi è capitato di leggere su alcuni siti web che il governo del Bengala Occidentale ha da qualche tempo vietato i mezzi di trasporto a trazione umana, quindi i risciò degli “uomini cavallo”. “E’ una barbaria che una persona debba portare altre persone“: il commento del governatore.

Rimorsi

In giro per Calcutta non si vedono da qualche anno più risciò circolare tranne qualche eccezione. Questo mi è stato confermato dai missionari salesiani di Don Bosco presenti da oltre un secolo nella grande, caotica, brutale megalopoli indiana. Sono state quindi un sollievo per il mio spirito queste informazioni.

Anche se per la verità ancora mi rode qualche rimorso legato a questi “uomini cavallo” mi sono messo a ripercorrere la storia di quei miei giorni a Calcutta. Era il 1998. Ero solo, ma il viaggio era organizzato bene. Avevo combinato per dei reportage sul settimanale svizzero “Azione”. A Calcutta avevo l’autista e un interprete. Il primo impegno fu quello di andare a vedere e fotografare la tomba di Madre Teresa di Calcutta costruita proprio a un anno dalla morte. Avevo preso contatti precedenti con la Missione Salesiana Don Bosco di Calcutta per avere un aiuto. I salesiani accettarono con grande cortesia e un confratello venne a prendermi in albergo alle quattro del mattino: «Bisogna andare prestissimo perché all’alba vi sono le novizie, che si riuniscono a pregare intorno alla tomba: una bella foto puoi fare». E così fu.

Miraggio

Il mio vero miraggio era però anche un altro. Eccitato dal racconto di Lapierre il quale vaga con bella insistenza nel cuore della bidonville che per assurdo, si chiama Anand Nagar, “città della gioia”. Senza una goccia d’acqua potabile, in mezzo al fetore, al fango, alla morte sempre in agguato, vivevano induisti, buddisti, musulmani e cristiani. Nonostante le condizioni di vita estreme e la povertà e il pugno di ferro della mafia dello slam, gli abitanti di questo luogo mostravano una forte legame e gioia di vivere, caratteristiche che hanno ispirato il titolo dell’opera. Volli andare a vedere da vicino, questa realtà così impressionante. L’autista e l’interprete mi condussero fino all’imboccatura del ponte in acciaio che scavalca l’Hoogly, il fiume di Calcutta, non distante era lo slam che cercavo. Ambedue si rifiutarono di accompagnarmi.

Avevano paura. Fissammo un appuntamento per ritrovarci sei ore dopo allo stesso posto, l’imboccatura del ponte vicino a un grande chiosco. Cominciai a camminare un po’ impacciato, pure timoroso in quel labirinto di stradette contornate da baracche di lamiera, di assi sconnesse, mi parve di andare in un altro mondo. Non era l’inferno ma gli assomigliava. Brulicavano anche mercati dove si vendevano merci povere, i particolare mucchi di foglie di betel, che il popolo tiene in bocca, assieme alla calce: il cosiddetto “bolo” che gonfia la guancia e secondo antica credenza solleva anche lo spirito, tiene su il morale. La gente mi guardava sorridendo e questo fu il più bel regalo che ebbi.

Trovai tanti “uomini cavallo” come Hasan Pal il protagonista del libro di Lapierre. Vagai a lungo sempre tenendo d’occhio il ponte d’acciaio, onde poter tornare al luogo dell’appuntamento. Poi, un po’ frastornato mi persi. Mi ero sempre impegnato a non salire mai su un risciò. Ma ero assai stanco, preoccupato e cedetti. A un “uomo cavallo” con esitazione dissi: «The bridge». Lui capì e in poco tempo giungemmo il ponte. Lo abbracciai, lo pagai dieci volte o più di quanto mi aveva chiesto. Lui da buon indù congiunse le mani appena sotto il mento e disse «Namasté», inchinando il capo. Mi pentii subito di quella mia debolezza, e ancora dopo tanti anni mi mortifica quel ricordo.

Gli “uomini cavallo” mi commossero quando li incontrai e li fotografai anche perchè mi ricordavano mio padre. Cosa c’entra il papà? Nel bombardamento di Erba del 30 settembre 1944 con i genitori, i nonni, altri parenti eravamo nella vigna quando caddero le bombe. Vi furono morti e mia madre ferita. Aveva coperto me che rimasi illeso. Il papà andò di corsa a recuperare una lettiga a mano e caricarono mia madre ferita in quella povera ambulanza. Sempre mi ha accompagnato il ricordo di mio padre tra le stanghe della lettiga che correva verso l’ospedale. Quando fui nelle strade di Calcutta guardando i risciò che correvano rividi mio padre tra le stanghe della lettiga. Mia madre si salvò.

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