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Giovedì 11 Settembre 2025
I Beatles e gli altri: la musica fa sessanta
Ricorrenze “Yesterday”, “Satisfaction”, “Like a Rolling stone” e “My generation”: inni simbolo di un’epoca. Un tempo in cui le canzoni non erano una moda passeggera e suggerivano ai più giovani nuovi stili di vita
Una chitarra lancinante, un ritmo – per l’epoca – frenetico, parole berciate più che cantate dalla voce sguaiata di Mick Jagger, così che pochi genitori potessero comprenderle fino in fondo, perché se le avessero comprese... Probabilmente innumerevoli copie di “(I can’t get no) Satisfaction” sono state scagliate dalle finestre delle rispettabili casette a schiera suburbane inglesi sessant’anni fa. E con loro i sordidi Rolling Stones sono stati proibiti, vietati, inseriti nella lista nera di quello che le brave ragazze non devono fare: non si saluta un ragazzo incontrandolo per la strada, non si fuma in pubblico e, soprattutto, non si ascoltano quei cinque buzzurri.
Al contrario, sempre in quel 1965, anche le mamme e i papà erano certamente lieti di raccogliersi con la prole attorno alla fonovaligia pagata, faticosamente, a rate, sulla quale andavano a cascare principalmente vinili dei Beatles. “Yesterday” era tutto quello che una famiglia perbene poteva desiderare: una melodia carezzevole, una morbida chitarra acustica, perfino un quartetto d’archi oltre alla voce pastosa di Paul McCartney che intonava, con incorruttibile perfezione, parole pregne d’un’introspezione rara per un ventitreenne (e quando la scrisse aveva pure un anno di meno). E così i Rolling Stones erano i grezzi cavernicoli che insidiano la verginità delle giovinette che stanno ancora imparando a portare con grazia le creazioni di Mary Quant (la minigonna era ancora una novità) mentre i Beatles sono i quattro giovani baronetti in giacca e cravatta, appena un po’ zazzeruti, ma era un prezzo da pagare tollerabile per questo poker di miliardari cui si perdonava perfino la provenienza dalla rozza e portuale Liverpool.
“Like a rolling stone”
Dall’altra parte dell’oceano Dylan diventava elettrico (l’evento su cui è incentrato il fortunato, recente biopic “A complete unknown”) e mandava in testa alle classifiche “Like a rolling stone”, una lunga e sguaiata invettiva che, ancora oggi, è attesa dai suoi seguaci durante i concerti, come un’apparizione divina.
A fine anno emerse dai sobborghi di Londra un nuovo, rumorosissimo quartetto, The Who, che completò la strada iniziata con “I can’t explain” e “Anyway, anyhow, anywhere” con la fragorosa “My generation”, che si guadagnò il rispetto anche dei colleghi, che si potevano considerare, ormai, dei “vecchi” del mestiere. E che mestiere. Fino a poco prima, fare rock era considerato poco più di uno scherzo, un vezzo per ragazzini che sarebbero poi cresciuti, si sarebbero tagliati i capelli e sarebbero andato a lavorare in fabbrica, oppure in azienda, rientrando nei ranghi.
Insofferenza
Ma la fortuna delle star, che non sembrava destinata a scemare in fretta, come una moda passeggera, suggeriva ai giovani che c’erano altri stili di vita possibili. “Satisfaction” faceva leva proprio su quella insofferenza, quell’insoddisfazione generale di chi non voleva seguire le orme dei padri e delle madri. “Like a rolling stone” era proprio una sveglia.
Una lunga sveglia, visto che Dylan abbaia per quasi sei minuti le peggio cose in faccia a una malcapitata (tanti hanno riconosciuto in quello sprezzante ritratto la sfortunata Edie Sedgwick, ricca e bellissima rampolla di ottima famiglia, sedotta dalla “wild side” di New York, elemento della Factory di Warhol che Bob amò, ma lasciò presto, come era sua abitudine all’epoca e in regalo niente fiori, ma le lancinanti accuse a una ragazza che, ora, si ritrova randagia, come una pietra che rotola.
L’obiettivo di Roger Daltrey, voce di “My generation”, scaturita dalla penna affilatissima del chitarrista Pete Townshend, è più vasto, è tutto il popolo dei giovani nati nell’immediato dopoguerra. “La gente cerca di metterci sotto, solo perché ce ne andiamo in giro”, balbetta prima di sbottare in una di quelle affermazioni che poi ti perseguitano per tutta la vita: “Spero di morire prima di diventare vecchio”, ascoltata ancora una volta pochi mesi fa a Milano, da un Daltrey 81enne, affiancato da un Townshend di qualche mese più giovane (il batterista Keith Moon e il bassista John Entwistle, purtroppo, sono riusciti a non invecchiare). Eppure, in mezzo a cotanta furia, a tutta questa urgenza giovanile, il brano che se la cava meglio, oggi, è proprio “Yesterday”. Resta la canzone più ripresa della storia della musica leggera, con un range di interpreti che spazia da Sinatra e Ray Charles a Cathy Berberian e Count Basie. Arrivò in sogno a Paul McCartney (come “Satisfaction” a Keith Richards), che per ricordarsene la melodia, facendo colazione, immaginò un’ode istantanea alle uova strapazzate.
Chissà se come “Scrambled eggs” avrebbe oltrepassato i decenni, sarebbe arrivata – ormai abusatissima – fino a noi, atipica anche come incisione dei Beatles (il solo autore, la sua chitarra acustica, un quartetto d’archi, l’eccitazione e l’urgenza del rock’n’roll fuori dalla porta)? Rolling Stones, Dylan e Who cantavano per la loro generazione, i Fab 4, che sempre nel 1965 vennero decorati da sua maestà, cantavano un’introspezione più matura e questo fece tutta la differenza.
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